Un libro a settimana: La pace del cuore di di J.Philippe

9. Atteggiamento di fronte alla sofferenza dei nostri cari

Rischiamo spesso di perdere la pace, nel caso in cui una persona a noi vicina venga a trovarsi in una situazione difficile. A volte siamo molto più toccati e preoccupati per la sofferenza di un amico o di un bambino che per la nostra. Questo in sé è molto bello, ma non deve costituire motivo di disperazione. Quali inquietudini, talvolta eccessive, regnano m alcune famiglie quando uno dei componenti è provato nella salute, disoccupato, vive un momento di depressione, ecc. Quanti genitori si lasciano consumare dalla preoccupazione per un problema di un loro figliolo.

Tuttavia il Signore ci invita, anche in questo caso, a non perdere la pace intcriore, per quell’insieme di ragioni esposte nelle pagine precedenti e che evitiamo qui di ripetere. Il nostro dolore è legittimo, purché mantenuto in una condizione di tranquillità. Il Signore non potrebbe abbandonarci: « Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se questa donna si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai » (Is 49,15).

Un punto sul quale vorremmo insistere è il seguente: così come è importante saper distinguere — lo vedremo in seguito — tra la vera e la falsa umiltà, tra il vero pentimento (pacifico e fiducioso) ed il falso (l’inquieto rimorso che paralizza), si rende necessario saper distinguere tra quelle che potremmo chiamare la vera e la falsa compassione.

È pur certo che più avanziamo nella vita cristiana, più la nostra compassione cresce. Mentre noi siamo per natura tanto indifferenti e duri, lo spettacolo della miseria del mondo e la sofferenza dei fratelli strappano lacrime ai santi, ai quali l’intimità con Gesù ha reso il cuore « liquido », secondo l’espressione del Curato d’Ars. San Domenico passava le sue nottate a supplicare il Signore, pregando e piangendo: « Mia Misericordia, cosa ne sarà dei peccatori? ». Potremmo arrogarci il diritto di mettere seriamente in dubbio la validità della vita spirituale di una persona che non manifestasse una vera compassione per il prossimo.

La compassione dei santi è profonda, pronta a sposare tutte le miserie e ad alleviarle, ma è anche sempre dolce, calma e fiduciosa. Essa è un frutto dello Spirito santo. Mentre la nostra compassione è spesso intrisa di preoccupazione e turbamento. Abbiamo un modo di coinvolgerci nella sofferenza dell’altro che talvolta non è giusto, perché motivato più dall’amor proprio che da un vero amore. Riteniamo sia giusto preoccuparsi eccessivamente per qualcuno in difficoltà e che questo sia un segno evidente dell’amore che nutriamo nei suoi confronti. Ciò è falso. Spesso in questo atteggiamento nascondiamo un grande amore per noi stessi: non sopportiamo la sofferenza degli altri perché noi stessi abbiamo paura di soffrire, ci sentiamo minacciati da questa sofferenza dell’altro, mancando per primi di fiducia in Dio. È normale essere profondamente toccati dalla sofferenza di qualcuno che ci è caro, ma se a causa di questo ci tormentiamo fino a perdere la pace, significa che il nostro amore per questa persona non è ancora pienamente spirituale e puro, non è ancora fondato in Dio. E un amore troppo umano, un po’ egoista e che non ha sufficiente fondamento in un’incrollabile fiducia in Dio.

Per essere veramente una virtù cristiana, la compassione deve procedere dall’amore (che consiste nel desiderare il bene di una persona, nella volontà di aiutarla alla luce di Dio e in accordo con i suoi disegni) e non dal timore (paura della sofferenza, di perdere qualcosa o qualcuno). Di fatto, dobbiamo riconoscere che troppo spesso il nostro atteggiamento di fronte ai nostri cari, che sono nella sofferenza, è più condizionato dalla paura che fondato sull’amore.

Diciamoci chiaramente una cosa: Dio ama infinitamente più di noi e meglio di noi quelli che ci sono vicini. Egli desidera che crediamo a quest’amore ed anche che sappiamo abbandonare tra le sue mani gli esseri a noi cari. Così facendo li aiuteremo in modo ben più valido. I nostri fratelli e sorelle che soffrono hanno bisogno di avere attorno a loro persone serene, fiduciose e gioiose. Saranno da esse aiutati molto più efficacemente che da persone preoccupate ed ansiose. Spesso la nostra falsa compassione non fa che aggiungere tristezza alla tristezza e smarrimento allo smarrimento. Essa non è fonte di pace e di speranza per coloro che soffrono.

Vorrei riportare, come esempio concreto, un caso incontrato da me recentemente. Una giovane donna soffre molto a causa di una forma di depressione, con paure angosciose che le impediscono spesso di uscire sola in città. Ho parlato con la madre: scoraggiata, in lacrime, ha supplicato che si pregasse per la guarigione della figlia. Io rispetto infinitamente il dolore comprensibile di questa madre. Naturalmente abbiamo pregato per questa figlia, ma ciò che mi ha colpito è che più tardi, avendo avuto l’occasione di parlare con la giovane, mi sono reso conto che vive la sua sofferenza nella pace. Mi diceva: « Sono incapace di pregare, ma la sola cosa che non smetto mai di dire a Gesù è la parola del Salmo: Tu sei il mio pastore, non manco di nulla ». Diceva anche di vedere dei frutti positivi della sua malattia, in particolare in suo padre che, un tempo tanto lontano da lei e dal Signore, cambiava ora atteggiamento.

Ho incontrato spesso casi del genere: una persona è nella prova e la vive molto meglio di quanti, tra quelli che la circondano, si agitano e si preoccupano per lei! C’è, a volte, la tendenza a moltiplicare in modo esagerato le preghiere di guarigione, perfino di liberazione, ricercare tutti i modi possibili ed immaginabili per ottenere la guarigione della persona, e non ci si rende conto che la mano di Dio è su di lei in modo del tutto evidente. Si devono accompagnare le persone che soffrono con una preghiera perseverante, sperarne la guarigione, e fare il possibile per ottenerla, ma occorre farlo in un clima di pace e di abbandono in Dio.

 

tratto da “La pace del cuore” di J.Philippe (ed. Dehoniane – Roma)