V domenica di Pasqua

Io sono la vera vite: un’affermazione che va letta alla stregua delle altre analoghe affermazioni di Gesù. «Sono il vero pane», «Io sono la luce». In queste affermazioni c’è una nota polemica: Gesù è la vera vite, il vero pane, la vera luce. Tutte queste affermazioni indicano che Gesù, e non altri, è in grado di offrirci quella vita che andiamo cercando.

L’affermazione di Gesù («Io sono la vite») introduce una novità rispetto all’Antico Testamento. Là si dice che Dio ha una vigna, qui si afferma che Dio stesso è la vite. Nell’Antico Testamento si parla di una vigna e di una vite che non sono all’altezza delle attese di Dio. Se qui l’evangelista Giovanni può affermare che la vite è finalmente all’altezza delle attese di Dio, è unicamente perché Gesù è la vite.

Ma qual è più ampiamente il punto di vista di Giovanni nel costruire questa allegoria? Solo un ringraziamento perché ora il discepolo, unito al Cristo, può finalmente portare frutti? O anche un elemento di inquietudine, di pericolo e quindi di avvertimento? L’uno e l’altro. C’è infatti anche il tema della prova (il Padre pota), che è un’indispensabile condizione di fecondità, ma che rimane pur sempre una possibilità di smarrimento. Si sottolinea che anche il cristiano può essere un ramo secco improduttivo! È la solita paradossale e sconcertante antinomia: la comunità è in Cristo, e quindi protetta, salvata e feconda, ma la possibilità del peccato non è assente. L’aggettivo «vera» che qualifica la vite si oppone all’antico popolo e a ogni altra pretesa di salvezza, ma il giudizio (chi non rimane in me viene gettato via) si riferisce agli stessi cristiani che non portano frutto. Criterio di giudizio sono i frutti, il ramo fruttifero viene potato, il ramo sterile bruciato. Ma più in profondità, il criterio di giudizio è il rimanere in Cristo, cioè la più assoluta dipendenza da lui: chi rimane in Gesù dà frutto, chi si stacca inaridisce. «Senza di me non potete far nulla» riprende un motivo caratteristico del Vangelo di Giovanni e, più in generale, dell’antropologia biblica: la struttura dell’uomo è essenzialmente aperta a Dio. Perciò l’uomo deve comprendere che la propria consistenza si trova nell’obbedienza, non nell’autonomia. Si tratta di una dipendenza da vivere anzitutto come fede e fiducia (nel senso cioè di appoggiarsi a Cristo e non a se stessi) e poi come osservanza dei comandamenti (cioè nel senso di conformare la vita alle parole di Gesù e non ai propri progetti). Non è però la dipendenza del servo nei confronti del padrone, ma piuttosto la comunione che corre fra amici: Giovanni infatti non parla soltanto di rimanere ma di un rimanere vicendevole: «Chi rimane in me e io in lui».

don  Bruno Maggioni