XIX domenica del tempo ordinario
Tutto il lungo discorso eucaristico di Gesù narrato nel cap. 6 di Giovanni può essere letto come l’illustrazione della difficoltà per l’uomo di cogliere e accogliere i segreti di Dio. Davanti alla difficoltà di riconoscere la sua provenienza divina, Gesù esorta: “non mormorate tra voi”. Mormorare vuol dire prendere le distanze, vuol dire uscire dalla fiducia, uscire da una storia con. Ma appena si esce da una storia con, tutto si fa incomprensibile e soprattutto si resta nell’impossibilità di soddisfare i desideri del cuore, si resta cioè sulla nostra fame.
E aggiunge: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. S. Agostino, commentando questi versetti, ha un’intuizione geniale. Osserva che se siamo attirati dal Padre, questo non vuol dire che siamo attirati per forza: “Che significa essere attratti dal piacere?Metti il tuo piacere nel Signore, ed egli soddisferà i desideri del tuo cuore(Sal 36,4). Che se il poeta ha potuto dire: ‘Ciascuno è attratto dal suo piacere’ [“trahit sua quemque voluptas”, Virgilio, Egloghe 2], non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo. Se i sensi del corpo hanno i loro piaceri, perché l’anima non dovrebbe averli? Se l’anima non avesse i suoi piaceri, il salmista non direbbe: ‘I figli degli uomini si rifugiano all’ombra delle tue ali; s’inebriano per l’abbondanza della tua casa, bevono al torrente delle tue delizie; poiché presso di te è la fonte della vita e nella tua luce noi vediamo la luce’ (Sal 35,8-10)” [Commento al vangelo di Giovanni, 26,4].
Ma solo un cuore che ama sa cosa significa questo. Solo un cuore che ha conosciuto l’amore sa di cosa si parla qui. È come se dicessimo a Dio: fa, Signore, che io trovi in te la mia felicità e tu mi darai i desideri del mio cuore (cfr Sal 36,4). Il salmo non dice che Dio soddisferà i desideri del nostro cuore, ma che farà nascere i desideri del nostro cuore, il nostro cuore vorrà ciò che forma la sua felicità. In questo verremo ammaestrati da Dio, perché saremo attirati là dove il piacere del nostro cuore ci spinge. Gesù poi cita il profeta Geremia: “tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,33-34), eco di Isaia 54,13: “Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore”. Ora, proprio nel Cristo siamo accolti nel perdono di Dio che ci consente di vederlo, di scoprirlo cioè nella sua verità di amore per noi. Quando Gesù proclama che lui è il pane di vita, dice essenzialmente che lui ci comunica quell’amore di Dio che è radice di vita e che ci permette di conoscere personalmente Dio accogliendoci senza riserve nel suo perdono. Proprio questo è ciò che la folla desiderava nel profondo del suo cuore, ma alla fine si trova impossibilitata ad accettare perché non si riconosce adatta al mistero di Dio, per cui scade nella mormorazione.
Come sempre nel vangelo di Giovanni, ma in particolare in questo dialogo, le espressioni hanno un valore intensivo. Tutto può suonare in una certa ovvietà, materiale o religiosa, eppure tutto può avere sfumature insospettate. I verbi usati: discendere, mangiare, vedere, credere, imparare, hanno tutti risonanze, scritturistiche e interiori, impensabili. Gesù cerca di illustrare il mistero che costituisce la sua persona come il segreto di Dio svelato agli uomini che, pur immensamente desiderabile, non è facilmente ricevibile. Perché? La reazione della gente al fatto che Gesù si presenti come il pane della vita è rivelatrice. Di per sé la gente non rifiuta l’equiparazione di Gesù al pane di vita; rifiuta l’affermazione che lui discenda dal cielo. Loro ne conoscono la sua origine: conoscono la famiglia, la provenienza (cfr Mt 13,55; Mc 6,3; Lc 4,22; Gv 7,15). Come può dire di venire dal cielo? Forse c’è l’allusione alla credenza che del Messia non si potesse sapere l’origine oppure, velatamente, potrebbe esserci un’allusione alla nascita verginale di Gesù. Il fatto comunque è che la rivelazione definitiva di Dio è ormai l’umanità di Gesù, tanto che mangiare la carne del Figlio dell’uomo significa assimilare il Figlio di Dio fino a vivere di lui. Non è possibile che l’uomo non desideri la presenza del Signore e il suo amore e proprio quando gli viene rivelato che quel desiderio può essere soddisfatto fa resistenza. Perché i cuori non riescono a vedere?
Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento didiscesache caratterizza l’agire di Dio. Il ‘discendere dal cielo’ non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore e quindi pensano sempre in termini di grandezza mondana, dove il potente prevale sul debole, dove l’alto la spunta sul basso, dove l’affermazione di sé presuppone l’innalzamento. Gesù, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, là dove risplende l’amore di Dio per l’uomo.
Tanto, che san Paolo riassume il senso della rivelazione di Gesù nell’espressione ‘Dio fa grazia di sé a noi in Cristo’, resa in italiano con “perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio…”. Perché mangiare il pane disceso dal cielo, questo significa! Come lui ha fatto dono di sé agli uomini in Cristo, così noi siamo chiamati a fare dono di noi agli altri in Cristo. Ora, tutta la difficoltà per l’uomo deriva proprio dal fatto che invece di accogliere la grazia ne cerca una a sua misura. Ma non esiste altra grazia se non quella, da parte di Dio, del suo ‘far grazia di Sé’ a noi, in benevolenza e misericordia, nel Cristo. Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una rivelazione siffatta promette. Se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo. Aprire il cuore al credere significa approdare alla percezione di quella grazia, grazia che apre alla bellezza di un amore gustato e condiviso, nell’accondiscendere a quel movimento di abbassamento perché risplenda in questo mondo l’amore di Dio. La fede è proprio a servizio dello splendore di quell’amore che ‘discende dall’alto’ e di cui il pane eucaristico è simbolo perfetto.
P. Elia Citterio