XX domenica del tempo ordinario
La liturgia ci presenta la continuazione del discorso di Gesù a Cafarnao sul pane di vita, ma oggi la prospettiva che suggerisce è particolare. È come se si riferisse al cuore dell’uomo individuandone la tensione di fondo con la lettura dei Proverbi, il contesto in cui opera con la lettera di Paolo agli Efesini e l’esperienza desiderata di vita con il brano evangelico. Ci svela cosa cerchi l’uomo, in quali condizioni, per quale esperienza di vita. La grande questione è la seguente: come ottenere l’intelligenza della vita. Essa appare desiderabile, chi non la vuole? Non è segreta, non è inaccessibile, non è complicata, non richiede studi particolari. Eppure, non è proprio a portata di mano. E nonostante tutto, il cuore la gradirebbe sempre
Il brano dei Proverbi presenta l’invito di Donna Sapienza e di Donna Follia agli uomini, che sono inesperti e privi di senno rispetto alla vita, che misteriosamente li attrae ma non in maniera scontata. Si tratta di ‘camminare per la via dell’intelligenza’, che la Scrittura presenta come il fascino di una donna che attira, l’una alla vita, l’altra alla morte, ma con una ‘esortazione’, non con una ‘dimostrazione’. Il che significa che occorre saper ‘vedere’, occorre ‘imparare l’intelligenza’, occorre fidarsi dei desideri del cuore e di chi lo guida. Alla fine, l’intelligenza si manifesta con il seguire chi è degno di fede, non chi ammalia solo.
Il brano di Paolo rivela il contesto in cui avviene questo discernimento: i giorni sono cattivi, occorre fare buon uso del tempo (letteralmente, occorre riscattare il tempo, aprirlo cioè al mistero sul quale si affaccia). In sostanza ci dice che per essere intelligenti, occorre essere spirituali, per essere spirituali occorre essere oranti, per essere oranti occorre diventare capaci di rendere grazie, per avere questa capacità occorre essere sottomessi: “…siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti spirituali, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri” (Ef 5,18-21). Purtroppo, le edizioni moderne della Bibbia suddividono la frase, che in greco è unica e suona così: “…rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, sottomettendosi gli uni agli altri nel timore di Cristo”. Anche il testo liturgico della seconda lettura è stato decurtato dell’ultima espressione.
Il dono dello Spirito è il contenuto della preghiera nel senso di imparare a percepire la volontà di Bene di Dio per noi; il rendere grazie esprime l’esperienza della percezione di quel Bene per noi e lo stare sottomessi indica il radicamento di quel Bene nel cuore da risultare il tesoro più prezioso. Ma tra il rendere grazie e lo stare sottomessi c’è tutto il tragitto del cammino da fare. Se si rende grazie senza stare sottomessi si è boriosi; se si è sottomessi senza rendere grazie si è servili. Invece, il segno che un cuore adora sinceramente il suo Dio è proprio il fatto di rendere grazie continuamente (= sempre, in ogni circostanza, comunque) e di stare sottomessi (ai propri fratelli, ma anche alla vita in generale) portando pazienza con il tempo, le cose, le circostanze, il nostro cuore e i nostri difetti, il prossimo.
Se consideriamo le parole di Gesù da questa prospettiva, tutto appare più chiaro. Espressioni più forti Gesù non poteva usare: ‘chi mangia[masticare, rompere con i denti, assimilare]la mia carne…’. Come comprenderle se non a partire dal dono dello Spirito che di quelmisteroci rende intelligenti?
Se le persone che ascoltavano Gesù non avevano accettato l’idea di un Gesù ‘pane vivo che discende dal cielo’, come avrebbero potuto accettare l’idea di Gesù che si fa pane da mangiare, di un Gesù che intende dar da mangiare la sua stessa carne? È evidentemente necessario un forte supplemento di intelligenza! Il discorso di Gesù è impostato su due verbi: mangiare e dimorare. Il mangiare è in funzione del dimorare. Lo stesso modo di parlare Gesù lo userà nell’Ultima Cena, insistendo assai di più allora sul dimorare per mostrarne le conseguenze:“Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me”… “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”(Gv c. 14-16). Come rimanere in Gesù senza assumere Gesù? E dove più concretamente, più realmente, più intimamente assumiamo Gesù se non nell’Eucaristia?
Quando mangiamo il pane eucaristico, in realtà non siamo noi a mangiare il Corpo di Gesù, ma è lui ad assimilarci al suo Corpo, ad assumerci in Sé. Dimorare allude alla dinamica di un amore che diventa radice di vita, che si fa vita di amore, partecipando alla stessa potenza di amore che qualifica la vita del Figlio dell’uomo, splendore dell’amore di Dio per il mondo. La preghiera dopo la comunione della messa di oggi lo ricorda molto bene: “O Dio, che in questo sacramento ci hai fatti partecipi della vita del Cristo, trasformaci a immagine del tuo Figlio, perché diventiamo coeredi della sua gloria nel cielo”. Diventare partecipi della vita del Cristo significa somigliargli, rivestirsi dei suoi sentimenti, vivere della sua stessa umanità sulla quale risplende, imperitura, la gloria dell’amore di Dio per gli uomini. Significa incarnare la Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Perché, per la nostra stoltezza, non ritenerci ‘degni’ dell’offerta di Dio, del suo mistero? E così, se l’uomo vuole la vita e dimorare nella vita, non può non viverla che in forza e per estendere a tutti quell’amore che gli si è rivelato in Gesù, che ha accolto nel suo cuore come la parola definitiva di Dio per l’uomo, sigillo di Bene e di Verità, principio di vita vera che riempie il suo desiderio.
P. Elia Citterio