XXIII domenica del tempo ordinario
Già nel brano evangelico di domenica scorsa, l’evangelista Marco narrava la difficoltà, da parte di qualcuno, ad accogliere la novità di Cristo che non viene percepita né accettata. Gesù, infatti, propone una visione inedita della vita, costituita da una relazione totalmente nuova con Dio, che trova in Dio stesso il suo principio e si realizza in Dio stesso.
La visione ossessivamente dettagliata della religione, che hanno in mente scribi e farisei, tenta – senza riuscirci – di rendere l’uomo più sicuro del suo rapporto con Dio, semplicemente attraverso l’adempimento preciso di una serie di prescrizioni. Invece, un Dio che in Gesù si rivela come Padre buono, che perdona tutti e che tutti ama, intacca questa ideologia legalistica ed è scomodo per scribi e farisei, che si basavano più sulla legge che sulla relazione. Triste è constatare che i discepoli sembra la pensino allo stesso modo.
Il brano evangelico di oggi, prosegue il discorso. Nel territorio della Decapoli, che si trova ancora in zona pagana, poco a nord della Galilea, alcune persone portano a Gesù un sordomuto, anzi – propriamente – la parola grecamoghilalonindicherebbe un balbuziente. Questo termine è lo stesso usato nel brano di Isaia che si legge oggi (Is 35,6) e anche qui è tradotto semplicemente con muto. Il significato dell’oracolo del profeta è che quando chi balbetta comincerà a parlare correttamente, sarà giunto il tempo messianico e quindi avverrà la liberazione. Isaia, storicamente, parla della liberazione di Babilonia, cioè della liberazione da un oppressore. Marco, invece, vuole mostrare che la missione di Cristo è universale, non è solo per Israele ma per l’uomo come tale, perché non c’è diversità su base etnica: dopo il peccato originale, tutti sono chiusi alla novità di Dio. Come dirà san Paolo, “non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23): tutti siamo sottomessi al peccato, tutti abbiamo perduto la gloria di Dio, tutti siamo morti per le nostre colpe e i nostri vizi (cf Ef 2,1-5).
Dunque, viene condotto a Gesù un uomo sordo-balbuziente, supplicando il Maestro affinché gli imponga le mani. Nel testo compare il verboparakalein, implorare, che viene usato in Marco ogni volta che qualcuno si butta in ginocchio e prega, è un gesto intenso anche nel significato religioso: è da rilevare che qui sono dei pagani a compierlo.
Il Salvatore, accolta l’invocazione, conduce in disparte l’ammalato. Portare in disparte è usato in Marco 7 volte: 6 volte riguarda i discepoli che il Maestro porta in disparte per spiegare il suo insegnamento, aprendo il loro cuore che non comprende in quanto chiuso e duro. Questa volta, invece, Gesù incontra un pagano che, per un handicap fisico, è isolato dal mondo. Il “sordomuto”, qui, è l’immagine dell’uomo dopo il peccato, incapace di comunicare, sganciato dalla comunione, privo di quella vitalità che sgorga dall’incontro con Dio e con i suoi simili. Perciò Gesù, cerca una situazione riservata, di intimità con colui che ha orecchie e bocca chiusi, per aprirgli non solo l’udito e la parola, ma anche e soprattutto il cuore.
Questo racconto ricorda e attualizza in Gesù la pedagogia di Dio con Israele, sintetizzata nell’oracolo del profeta Osea: “La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16). In questo momento il Signore sospira perché – anche per il Figlio di Dio – la resistenza dell’uomo a essere salvato è desolante. Perciò Egli supplica il Padre, alzando gli occhi verso il Cielo, testimoniando che solo un rapporto profondo infrange le muraglie della solitudine e scavalca le trincee dell’isolamento. Solo con la relazione si può creare una relazione, perciò Cristo, tutt’uno con Colui che lo manda, si prende cura con decisione di quest’uomo, altrimenti condannato all’isolamento. Così comincia l’azione di Dio: Gesù si prende cura di lui. Qui c’è il nocciolo del brano. L’uomo a livello corporeo può anche essere sano. Si possono avere le orecchie in perfetta salute, ma essere comunque sordi. E lo stesso vale per la voce. Il Vangelo ci viene in aiuto: qui in greco si dice che Cristo toccòl’uditodel sordomuto, non l’orecchio. L’orecchio, forse, funzionava ma la prestanza fisica, da sola, non basta: non si tratta puramente di una questione meccanica. L’uomo comprende le cose solo se è inserito in un mondo, in un intreccio di incontri, di amicizia, di amore, di relazioni dove egli da e riceve amore, perché solo queste relazioni sono l’ambito che dischiude i significati, dove si capiscono le cose. Perciò Gesù lo toccherà con la saliva, che è come la condensa del soffio vitale, che è l’immagine dello Spirito. Sta avvenendo, così, una nuova creazione. Altrimenti l’uomo senza questo alito di vita, senza la grazia divina, e senza incontrarsi, aprirsi, parlare con i suoi simili non è in grado di comunicare e di comunicarsi, e – in fondo – non è in grado di vivere come uomo.
Cinque secoli di una cultura basata sull’esaltazione dell’individuo hanno fatto quasi del tutto scordare il senso teologico straordinario della persona e hanno creato, invece, una idea falsa di comunicazione. Oggi, potremmo dire di essere proprio nell’epoca della balbuzie perché la cultura informatica ha indebolito quasi completamente il nesso tra comunicazione e comunione. L’individuo pare totalmente assorbito da uno strumento che tiene in mano, illudendosi che la dimensione digitale lo apra mondo delle relazioni, ma, in fine, ritrovandosi solo al punto da non avere davanti a sé una persona e non vederla. Sono scenari cui siamo ormai abituati, nei ristoranti, sui mezzi pubblici: ognuno è chiuso nel silenzio del rumore del proprio mondo. Noi cristiani abbiamo, nella sfida della comunicazione, una provvidenziale occasione proprio per testimoniare che la vita ricevuta è comunione, reale e non virtuale.
L’idolatria del mondo digitale conduce in un mondo illusorio, in una comunicazione che rischia di essere balbuziente, piena di vuoto, priva di contenuto. Il pericolo è di non comunicare come persone: non ci si comunica come persone ma si danno informazioni. Il contenuto dell’esistenza cristiana, invece, è proprio la comunione. Cristo non dice solo “Apriti” (Mc 7,34), ma è usato addirittura il verbodianoigo, “Spaláncati”. Non si rivolge allo “strumento” che è l’orecchio, ma alla persona. Vivere nell’altro, vivere con l’altro, vivere una vita intessuta con gli altri richiede questa apertura che è resa incondizionata all’altro, all’Altro.
Dianoigo, spalancarsi, è il verbo usato tre volte nell’incontro di Emmaus (Lc 24, 31.32.45). Perché si spalancano gli occhi e si spalanca la nuova creazione quando i discepoli non vedono più solo il pane ma vedono di nuovo il Cristo. Vedono ciò che vede la relazione, ciò che si vede nell’amore, ciò che vede la persona e non ciò che vedono meccanicamente gli occhi.
Questo ormai ex sordomuto è dunque il primogenito di una nuova creazione. Questo spalancare apre una visione nuova, nasce un uomo nuovo, capace di dire le cose perché ama qualcuno e le sta dicendo a qualcuno. E sente perché ascolta qualcuno.
P. Marko Ivan Rupnik