XXVII domenica del tempo ordinario
Per comprendere il brano evangelico di oggi dobbiamo collocarlo nel contesto religioso del tempo. La domanda dei farisei, domanda tranello, non verteva tanto sul carattere lecito del divorzio, che anche la Legge consentiva (Dt 24,1: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”), ma a quale condizione lo fosse. Nella controversia tra le due scuole di Hillel e Shammai, ai tempi di Gesù prevaleva la prima, più rigorista: il divorzio è lecito solo a una condizione, in caso cioè di unione illegittima (che anche Mt 5,32 contempla) o di adulterio, mentre più tardi prevalse la seconda, più lassista: il divorzio è lecito per qualsiasi motivo. La legge sul divorzio proteggeva la donna dall’accusa di adulterio, perché le permetteva un nuovo matrimonio. Nell’ordinamento ebraico ai tempi di Gesù sembra che spettasse solo al marito l’iniziativa del ripudio, mentre nell’ambiente greco-romano spettava anche alla donna. Così Marco, che scrive per i convertiti dal paganesimo, attualizza l’insegnamento di Gesù per coloro che provenivano dal paganesimo.
Tutti sapevano che il ripudio era una consuetudine pacificamente accettata e che Mosè aveva avvallato con un’indicazione precisa. I farisei sembrano intuire che l’insegnamento di Gesù vada contro la Legge. Vogliono che lo dichiari apertamente per aver motivo così di accusarlo. In effetti tutte le fonti attestano la presa di posizione radicale di Gesù sul divorzio, che però la Legge approvava e che Gesù, però, non aveva intenzione di scardinare.
La risposta di Gesù, collocandoci nell’interpretazione più rigorista della legge mosaica, affronta la questione in una prospettiva completamente diversa. Gesù, contrapponendo comandamento a concessione, arriva al cuore del problema. In gioco non c’è l’interpretazione restrittiva o estesa di una norma e neppure la norma stessa, ma il fondamento su cui la norma prende valore. Il valore di riferimento non è la consuetudine, per quanto avvalorata, sebbene in semplice concessione, dalla stessa Legge, bensì l’agire di Dio che esprime il suo volere quanto all’uomo. E Gesù richiama l’atto della creazione: “Dio li fece maschio e femmina; per questo l’ uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola” (cf. Gen 1,27; 2,24). Faccio notare che nel testo ebraico quel ‘si unirà’ non ha una marcata valenza sessuale, valenza che si accentuerà nelle versioni e nei commenti successivi. Quella benedizione di Dio non è mai venuta meno, nonostante i peccati e le fragilità umane. E quella benedizione costituisce l’asse di riferimento perenne del valore del matrimonio.
Gesù si riferisce al secondo racconto della creazione dove l’uomo non è più considerato come coronamento del cosmo, bensì suo principio. Quando, con l’antifona di ingresso (citazione dal libro di Ester. Il passo è tradotto dalla Volgata e corrisponde al cap. 13,9.10-11, mentre nelle Bibbie moderne, ad es. la Bibbia TOB, il passo corrisponde al cap. 4,17b-c), proclamiamo: “Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e nessuno può resistere al tuo volere” alludiamo alla parola: “Non è bene che l’uomo sia solo”. Tutte le cose sono date all’uomo, ma in nessuna cosa l’uomo trova il suo compimento. Da notare che Adamo godeva pienamente della pace con Dio, non era ancora venuto il peccato a turbare l’armonia con Dio e con il creato. Il contesto stesso della citazione dal libro di Ester è oltremodo significativo. Ester ha saputo dell’editto di annientamento del suo popolo ed è invitata ad intervenire. L’angoscia è totale perché nessuno può presentarsi al re se non chiamato, pena la morte, nemmeno la regina, come è lei. Allora supplica il Signore e Gli ricorda che nessuno può resistere al Suo volere di salvare Israele. Su quella volontà si fa forza e ardisce entrare alla presenza del re, che poi convince alla sua causa. Gesù si rifà a quel ‘volere’ di Dio nei confronti dell’uomo, volere che possiamo spiegare così.
Dio è Uno, ma non è solo. In questo mistero insondabile del Dio, uno nella natura e tre nelle persone, rivelato da Gesù, si fonda il volere di Dio per l’uomo. È come se Dio dicesse: non è possibile che l’uomo non partecipi alla realtà più bella che mi costituisce, l’amore. Non basta che l’uomo ami Me, suo Creatore, se non può amare anche chi è della sua stessa natura; l’amore che Noi, Padre Figlio Spirito Santo, ci costituisce, voglio che anche l’uomo lo possa vivere al pari di Noi. Ora la donna, che non è tratta come Adamo e tutte le cose dalla polvere del suolo, ma dallo stesso Adamo, è plasmata perché l’uomo potesse ‘essere come Dio’, amare come Dio: realizzare la comunione in un’unica natura e tra persone diverse.
Lo sottolinea anche la liturgia con il canto al vangelo: “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi”. Come a suggerire: l’amore, che ha le sue origini in Dio, rende uomini e donne di pari dignità rispetto alla loro vocazione originaria, perché solo attraverso l’amore possiamo fare esperienza di Dio. E quando un uomo e una donna sono consacrati nel loro amore, in gioco è proprio la consumazione dell’amore di Dio che si rivela in essi. Solo la tensione al Regno dei cieli, però, può motivare fino in fondo la decisione di quell’amore, tensione che giustifica l’insegnamento di Gesù sul divorzio andando contro la Legge.
In effetti, la posizione di Gesù è vincolata all’accoglienza del Regno, al fatto di vederlo come colui che compie il volere di Dio per l’uomo. Il brano è inserito in un contesto preciso, quello della sua sequela, che si chiude con il suo ingresso a Gerusalemme. I suoi discepoli sono come storditi, perché subito dopo Gesù proclama il valore del celibato volontario per il regno dei cieli, l’inciampo delle ricchezze per il sincero servizio del cuore e, per la terza volta, annuncia la sua prossima passione.
Così, l’indissolubilità del matrimonio diventa una esigenza del regime messianico insieme a tutto il resto. Proprio in questo trova senso il paragone dei bambini che leggiamo subito dopo: “a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio”. Vi è l’allusione alle beatitudini: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli …”. I bambini, da interpretare come ragazzi di 10-12 anni, prima del bar mitzvah, quando cioè a pieno titolo entrano nella società degli adulti con il poter leggere pubblicamente la Bibbia e contribuendo al numero legale per un’assemblea di preghiera, sono l’immagine dei discepoli che non hanno titolo di importanza o prestigio, che non si aspettano nulla, che non esercitano alcun potere, che possono confidare solo in chi vuole loro bene. Di questi è il regno dei cieli, di quanti cioè hanno posto in esso tutta la loro confidenza e in nient’altro, non cercando quindi ricchezze o prestigio o finendo di servirsi di Dio invece che essere suoi servi. L’insegnamento di Gesù è chiaro e i discepoli restano pensierosi. Dovranno fare ancora tanta strada insieme al loro Maestro per accogliere queste sue parole e viverne la potenza.
p. Elia Citterio