XXVIII domenica del tempo ordinario

Se il brano evangelico di domenica scorsa aveva presentato lo sbigottimento dei discepoli rispetto all’insegnamento di Gesù sul matrimonio e sulla verginità per il regno dei cieli, ora lo sbigottimento è dovuto al suo insegnamento sulle ricchezze. L’occasione è fornita dalla richiesta di un giovane ricco che interpella Gesù a proposito della vita eterna. Davanti all’esito dell’incontro, che ha lasciato tutti con la bocca amara, Gesù chiosa: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!” e, subito dopo: “Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!”. Il giovane se ne era andato rattristato perché non ha avuto il coraggio di disfarsi delle sue ricchezze, a fronte di una richiesta, liberamente formulata, che evidentemente gli derivava dal fatto che non era soddisfatto della sua vita, pur devota. Va notato subito che Gesù non ha chiesto a tutti di abbandonare le proprie ricchezze per seguirlo, ma solo ad alcuni, a quelli che aveva scelto perché stessero con lui e per mandarli a predicare. L’insegnamento di Gesù, perciò, non riguarda il possesso delle ricchezze.

Almeno due cose si possono notare. Prima cosa. L’orizzonte della richiesta del giovane ricco sembra limitato. La vita eterna che mostra di volere è assai diversa da quella che Gesù chiama l’entrare nel regno di Dio. È come se non riuscisse a distinguere il comandamento dalla ispirazione che l’ha dettato. Il dramma dei credenti viene proprio dal fatto che si può praticare il bene e non arrivare mai a gustarne il frutto. La messa in guardia risuona nell’affermazione di Gesù: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”.Ciò significa che si possono fare atti buoni senza diventare buoni o, meglio, fare i comandamenti senza partecipare alle segrete intenzioni per cui Dio ci ha dato quei comandamenti e così non veniamo messi a parte del suo segreto e del desiderio del suo cuore, non diventiamo mai intimi suoi. Il giovane ricco ricerca il regno di Dio come aggiunta ai beni che ha già. Non è disposto ad accogliere il regno come la radice di vita, come la partecipazione al segreto di Dio temendo così di perdere i suoi beni.

Seconda cosa. Se paragoniamo la richiesta della sapienza da parte di Salomone e quella del giovane ricco comprendiamo la distanza che li separa. Salomone è già re, è ricco, ma chiede a Dio la cosa che solo da Lui può provenire e che lui, Salomone, reputa come la cosa più preziosa: la sapienza. La sua richiesta è tesa alla realizzazione del compito per cui è stato chiamato: reggere il popolo con giustizia e rettitudine. E proprio perché ottiene da Dio la cosa principale, quella più preziosa ai suoi occhi, non mancherà di alcun altro bene. La richiesta del giovane ricco rivela invece che per lui la sequela del Signore non è così preziosa; sarebbe desiderabile, gli appare bella, ma non la cosa più preziosa. Vorrebbe solo essere più soddisfatto. Non desidera l’intimità con il suo Dio a tal punto da disprezzare quello che ha già pur di averla.

Di per sé la posizione del giovane ricco e dei discepoli, sbigottiti, si equivale. In fondo, pensano allo stesso modo. La differenza risiede nel fatto che i discepoli sono però capaci di provare a credere a Gesù, capacità che permetterà al loro cuore, a tempo debito, di condividere i segreti di Dio che in Gesù si manifestano, lasciandosi conquistare totalmente. Pietro non pretende qualcosa se sottolinea cosa ci guadagneranno dall’aver abbandonato tutto per seguire il loro Maestro. Dichiara semplicemente che a loro non è ancora dato di godere il frutto della loro rinuncia. E Gesù gli risponde con la promessa che ciò avverrà sicuramente e in abbondanza, a patto che seguano il Maestro fino in fondo, fino a conoscere nell’esperienza del loro cuore la prima beatitudine, ripresa dal canto al vangelo: “Beati i poveri in spirito, perché di esse è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Si potrebbe dire che il senso della nostra vita si gioca non nel voler fare il bene, ma nel farlo per entrare nel segreto di Dio e il segreto di Dio che ci rivela il suo amore per noi è proprio quel Figlio che è stato dato per noi e con il quale vogliamo stare.

Non è però possibile all’uomo entrare nel segreto di Dio. In questo senso si capisce bene la tristezza di Gesù davanti alla tristezza del giovane ricco che se ne va disilluso: il giovane rifiuta l’ingresso in una gioia che aveva intravisto e di cui si rassegna a non godere più. La conseguenza sarà che i comandamenti eseguiti non saranno mai per lui motivo di intimità e di gioia del cuore. E per questo non può ancora entrare nel Regno, che gli è balenato davanti.

La prima lettura illustra come sia da intendere questa impossibilità per l’uomo di ‘salvarsi’, cioè di entrare in intimità con Dio e vivere in comunione con lui e con tutti i suoi figli. Se Salomone prega per ottenere la sapienza vuol dire che la sapienza non è una conquista umana. Il salmo responsoriale lo mostra chiaramente. Parla di ‘saziarsi di grazia’, di ‘dolcezza del Signore’, di ‘saldezza’ dell’agire dell’uomo. Accogliere Gesù significa accogliere la sapienza di Dio che è splendore di amore per l’uomo. Tutto ciò che ha a che fare con quello splendore nella vita degli uomini parla della sapienza che ha lambito il cuore dell’uomo e lo rende luminoso. A paragone con questa sapienza, le ricchezze e ogni altro bene di cui godere nella vita non costituiscono nulla di davvero significativo per il cuore. Salomone lo sa e prega ardentemente per partecipare a quella sapienza.

E se l’antifona di ingresso proclama, eco del salmo 129: “Se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, o Dio di Israele”,vuol dire che l’uomo non può accedere alla sapienza sulla base dei suoi meriti, non può conoscere la sapienza a partire dal suo buon comportamento; vuol dire che si accede alla sapienza con il riconoscere il bisogno del perdono, che non equivale semplicemente a riconoscere la colpa, ma a riconoscerla davanti a Qualcuno che ci vuol far dono di Sé.

p. Elia Citterio