XXX domenica del tempo ordinario
Il brano evangelico di oggi sia per il racconto che per la collocazione nella trama della narrazione evangelica è molto singolare. Possiamo notare alcuni dettagli. I Padri si sono chiesti come mai Marco nomini il cieco con il suo nome proprio, Bartimeo, il figlio di Timeo. Oltre Giairo e gli apostoli, i personaggi evocati non vengono chiamati nel vangelo con nomi propri. Forse si trattava di un personaggio conosciuto, forse un benestante decaduto al punto che il figlio, cieco, fosse costretto a sedere sul bordo della strada a chiedere l’elemosina. Il modo di rivolgersi di Gesù a Bartimeo ricalca la stessa maniera con cui si era rivolto ai figli di Zebedeo, però con un esito diverso: diniego a chi chiedeva gloria, compassione a chi chiede guarigione. I verbi usati nel racconto hanno accenti assolutamente speciali. Tutti i verbi del brano sono intensivi: Bartimeo grida, non semplicemente chiama; ripetutamente grida (tra l’altro, il grido del cieco è diventato il paradigma dell’invocazione della preghiera di Gesù, della preghiera del cuore!); getta via il mantello, non semplicemente se lo toglie; balza in piedi, non semplicemente si alza; si rivolge a Gesù da dentro un’emozione che aveva già lavorato il suo cuore, sebbene non avesse ancora mai potuto vederlo in faccia e, appena lo vede, non può che mettersi a seguirlo. Tutto il racconto assume una valenza simbolica precisa, che la liturgia fa risaltare
La prima lettura è tratta dal cap. 31 di Geremia, il capitolo che descrive il compiersi della promessa di Dio per gli esuli a Babilonia, l’arrivo a Sion del Signore con il suo popolo, realizzazione che allude a un’altra promessa, quella di una nuova alleanza, scritta sui cuori, quando Israele corrisponderà con la stessa dedizione all’attaccamento del Signore al suo popolo e tutto sarà riedificato nuovamente. Straordinaria è la descrizione dei sentimenti di Dio: “Ti ho amato di amore eterno … il mio cuore si commuove e sento per lui profonda tenerezza … tutti mi conosceranno … poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. Il salmo responsoriale celebra l’esperienza del ritorno dall’esilio e la riconsegna del popolo al suo destino di bene e di felicità, come il Signore aveva promesso.
A noi sfugge la dimensione drammatica di queste promesse di Dio, come sfugge la tensione emotiva del cuore del cieco che ha tanto atteso il suo momento. Geremia vede in sogno la realizzazione del ritorno del popolo dall’esilio e legge il suo sogno come la profezia del futuro. In realtà, attorno a lui, a Gerusalemme, tutto è distrutto, la città svuotata, le sofferenze immani e la prostrazione abissale. Ma Dio non può venir meno alle sue promesse e il profeta vede, spera, crede, lotta per rianimare e consolare.
Così per Bartimeo, che troppo a lungo ha dovuto soffrire, troppo a lungo ha dovuto aspettare, troppo a lungo aveva sperato. Quando gli si presenta l’occasione, tutto scoppia, prorompe, e lui perde ogni ritegno. E Gesù, che anche lui vive con impazienza ormai la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini da non vedere l’ora di arrivare a Gerusalemme, riconosce il suo desiderio, lo risana e lo rende suo compagno di viaggio, partecipe ‘vedente’ del suo segreto da parte di Dio.
I particolari che illustrano la tensione interiore di Bartimeo sono due: il grido, ‘Figlio di Davide’ e l’appellativo con il quale si rivolge a Gesù: ‘Rabbunì’. Nei vangeli sinottici, se non vado errato, soltanto nel caso del o dei ciechi di Gerico ci si rivolge a Gesù con ‘Figlio di Davide’ (in Matteo, anche la donna cananea usa quel titolo, lei, pagana!). L’espressione è da collegare all’esclamazione che subito dopo, entrando Gesù in Gerusalemme, la folla proclama festante. Allude al mistero di Gesù che si sta svelando e che nessuno coglie. Bartimeo sembra presagirlo. Lo conferma il titolo con il quale si rivolge a Gesù quando gli arriva davanti: “Rabbunì”, evidentemente pronunciato con un tono accorato, a differenza delle grida che gli avevano ottenuto l’attenzione dello stesso Gesù. Quella espressione nasconde un mondo. Quel modo di riferirsi a Gesù fiorisce solo sulle labbra di un’altra persona: Maria Maddalena. Quando, nel giardino, si sente chiamare per nome da Gesù subito dopo la sua resurrezione (cfr. Gv 20,16), ella risponde: Rabbunì! Immaginiamo il trasporto, l’emozione con cui viene pronunciato! Rivela la natura di un rapporto ricco di intimità, assolutamente personale, riassume la sua storia, contiene tutto il suo cuore di donna e di discepola. Per Bartimeo quell’appellativo cela tutto il desiderio che aveva a lungo lavorato il suo cuore, esprime una tensione fortissima dell’anima. E non solo in funzione della guarigione che invoca, ma in funzione dell’orientamento di tutta la sua vita, come poi il brano testimonia annotando che Bartimeo va dietro a Gesù. Quel suo ‘andar dietro’ a Gesù porta l’eco del comando di Gesù: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E dove Gesù lo porta? A Gerusalemme, perché subito dopo il miracolo, il testo del vangelo prosegue descrivendo l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, dove si compie la sua ora. La vista che gli ha ridato, nella visione della fede che ormai abita il cuore, lo porta a vedere in Lui il Regno che si compie, il Paradiso nel quale tutti i discepoli di Cristo sono chiamati ad entrare. E così la figura di questo cieco diventa l’immagine-simbolo della tensione dell’anima e della scoperta di Colui che ormai ha rapito i nostri cuori. La richiesta del cieco di ‘vedere’ è correlata al ‘vedere’ dei discepoli che hanno seguito Gesù fin sul calvario e i cui cuori si aprono alla visione del Risorto. Quel ‘vedere’ non è il semplice guardare, ma il riconoscere, il vedere dall’alto, l’entrare nella contemplazione del segreto di Dio nel suo amore per l’uomo.
Ora, questo è proprio l’esito della preghiera: tornare ad avere il cuore che vede svelarsi e compiersi nel concreto della vita il segreto di Dio. In questa prospettiva va letta l’esultanza del credente come ripete l’antifona d’ingresso di oggi, ripresa dal salmo 105: “Gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto”, perché vi renda complici del suo segreto per l’uomo. Come la versione greca e latina rendono: ‘cercate il Signore e siate fortificati’. Fortificati dalla comunanza di vita con colui che dell’amore per noi ha fatto la ragione della sua umanità. La preghiera è allora la condivisione della fretta che muove Gesù di veder compiersi il segreto di Dio in favore degli uomini, fretta che trascina i discepoli e muove il mondo. Soltanto l’invocazione gridata con tutto il cuore, senza alcun ritegno, come è avvenuto per la donna Cananea (Mc 7, 26) e per Bartimeo: “Figlio di Davide, abbi pietà di me” farà vedere la fretta che muove il Signore nel suo appressarsi all’uomo aprendoci il suo segreto e sanando così il nostro cuore, tanto da trascinarci nella sua stessa dinamica perché tutti ne siano lambiti e il mondo risplenda della Sua presenza io, una vita alla maniera di Dio e allora vive come dono.
È un bivio che nel Vangelo ritroviamo tante volte. Una mentalità basata sulla necessità di provvedere a se stessi è la vera conseguenza culturale e antropologica del peccato. È questo lo squilibrio profondo per il quale l’uomo non riesce più a recuperare la vera intelligenza, il vero intelletto, tanto che poi per ricomporre l’intelletto si dovrà aspettare il dono dello Spirito Santo, il dono che è sapienza, per poter conoscere. Altrimenti, anche nella fede si infila il ragionamento di questo mondo: secondo questo mondo, cioè secondo la natura umana, secondo l’individuo che cerca di estendere sugli altri la propria individualità. Perciò non stupisce la domanda, rivolta a Gesù da Giacomo e Giovanni, di essere uno alla sua destra e uno alla sinistra: infatti non sanno neanche cosa stanno chiedendo (cf Mc 10,38).
È evidente che se sapessero che il Suo trono è la croce e che ci sarà uno crocifisso alla destra ed uno alla sinistra, i figli di Zebedeo non chiederebbero mai di poter essere seduti accanto a Lui. Ma la tentazione insinuata dal serpente, il “diventerete” qualcosa di diverso da quello che siete già, qualcosa di più di ciò che avete già ricevuto come dono, rimane attuale sempre.
Cristo allude al Salmo 75,9, a Isaia 51,22, a Geremia 25,15-18, a Ezechiele 23,32- 34, dove il calice rappresenta la sofferenza feroce, tremenda. Un male rabbioso, un’ira che si scatenerà. Questo è il calice da bere, questa è l’immersione – in questo senso leggiamo il riferimento al battesimo del versetto 39 – che aspetta il discepolo.
Un’immersione nella storia, così come plasticamente fa vedere il Salmo 69, 15-16 quando ormai l’acqua arriva alla gola, il fango di un grande temporale, in un nubifragio, dove si scatenano tutte le forze cosmiche del male. Lì si tratta di stare, non badando a se stessi ma vivendo come dono anche in una storia così crudele. La risposta dei due discepoli è pronta, ma ancora secondo un ragionamento di natura che conta su se stessa per riuscire.
Cristo prende una posizione molto netta rispetto al potere ed esplicitamente perciò dice: “Tra voi però non è così” (cf Mc 10,43). Da nessun’altra parte è scritto così chiaramente. Questa è la mentalità del mondo, lì si ragiona secondo il dominio e l’esercizio del potere. Lui è venuto “per servire e dare la propria vita” (Mc 10,45).
Inutile ripetere quanti fraintendimenti la storia denuncia, quanti “palazzi” manifestano esattamente il contrario. Importante, invece, è puntare lo sguardo su quel piccolo raggio di potere che ognuno esercita, su una piccola cosa, su una piccola decisione. Lì questa parola interroga e illumina circa quale vita uno vive e secondo quale vita pensa. Se quella dell’io individuale, che vuole estendere sul prossimo la propria individualità facendola subire, o quella secondo la vita nuova, quella che non teme di essere dono. È la vita che segue il fiume silenzioso che è la vita del Figlio in noi, quella che invita a lasciarsi portare come dono, a consegnarsi perché il Padre è fedele.
p. Elia Citterio