VIII domenica del tempo ordinario
Il brano di oggi segue l’illustrazione del criterio di discernimento del bene che Gesù ha appena spiegato: quale grazia devono mostrare i discepoli nel loro agire? Il loro agire dove deve pescare? Cosa deve far splendere? Gesù racconta la parabola dei due ciechi che cadono nel fosso se non saranno guidati. E formula il principio: “Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro” (Lc 7,40). Poi aggiunge l’invito a non guardare al difetto, piccolo, del fratello senza aver prima considerato il difetto, grande, di noi stessi, se non si vuole essere ipocriti. Sul principio: “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 7,45).
Quello che forse stentiamo a riconoscere è il collegamento tra il primo e il secondo principio. Secondo le parole di Gesù in cosa consiste l’ipocrisia? L’ipocrisia è l’atteggiamento di chi giudica in proprio senza rifarsi al suo maestro, senza voler seguire il suo maestro. Se ci riferiamo al passo di Giovanni in cui si narra, dopo la lavanda dei piedi nell’ultima cena, dell’esortazione che rivolge ai suoi apostoli, possiamo intuire la profondità di senso delle parole di Gesù. Ritornando sul gesto dell’aver lavato i piedi ai suoi apostoli, Gesù spiega: “Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,15-17).
La bontà di cui parla Gesù è quella che deriva dall’imitazione di Dio: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo” (Lc 18,19). E se Gesù è il testimone per eccellenza della bontà di Dio per l’uomo, allora chi si muove come lui otterrà un cuore buono. Ma per muoversi come lui, occorre prima accoglierlo, riconoscerlo, dimorare in lui, riconoscersi in lui. Il buon tesoro del cuore è proprio lui. Da quel buon tesoro non possono che derivare frutti di bene. Quando però il nostro cuore fa resistenza, ha paura, si nasconde, non vuol riconoscersi in colui che è il suo salvatore e il suo riposo, allora avviene che dal cattivo tesoro derivano frutti di male. Il primo segnale di questo è l’ipocrisia, vale a dire pretendere di giudicare il fratello senza patire prima il giudizio su noi stessi, con la presunzione di ammantare di vesti splendide ciò che è intrinsecamente sgradito a Dio: voler correggere il fratello per il suo bene senza sincerarsi che quel bene faccia conoscere il Signore nella sua bontà.
È poi caratteristico che l’esemplificazione del frutto buono o cattivo sia applicato alla parola. Lo diceva già il libro del Siracide: “Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti; così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti. I vasi del ceramista li mette a prova la fornace, così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo. Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore” (Sir 27,4-6). E il salmo responsoriale commenta questa costatazione con l’invito al rendimento di grazie, l’atteggiamento che segnala la sincerità del cuore nei confronti di Dio e la libertà del cuore nei confronti dei fratelli: “È bello rendere grazie al Signore…annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità” (Sal 91,2.16). Prima ancora che una certa parola, a rivelare i pensieri del cuore è il tono con cui questa parola è rivolta ai fratelli, è la disposizione interiore profonda nella quale quella parola pesca. E se la disposizione interiore è quella che Gesù fa sentire con il lavare i piedi ai discepoli, allora vuol dire che il cuore ha accolto la misericordia di Dio per noi e tutte le parole che formulerà porteranno il profumo di quella misericordia. L’ipocrisia sarà vinta.
Nella tradizione ebraica il salmo 91/92 è l’unico salmo in cui si annota che deve essere cantato in un certo giorno, cioè di sabato. Il Targum interpreta questo salmo come il canto del primo Adamo. E noi possiamo interpretarlo come il canto dell’ultimo Adamo, del nuovo Adamo, di Gesù, lui che è il vero albero buono che produce frutti buoni. Come un’antica preghiera salmica fa pregare: “Accordaci, Signore, che, trapiantati nella tua dimora, fioriamo sempre nei tuoi atri. Fa’ che non periamo, insieme ai peccatori, come l’erba dei campi, ingannati dalle vanità passeggere, ma, portando un frutto di conversione, godiamo di te solo, che rimani in eterno, in una felicità senza fine”.
Così, l’immagine dell’albero buono che produce frutti buoni e di quello cattivo che produce frutti cattivi, non è semplicemente una massima, un proverbio. È l’indicazione di un percorso, è rivelazione di una verità: se starete saldi in colui che ha avuto misericordia per voi, anche voi potrete usare misericordia ai vostri fratelli. E in questo, essere come il vostro Maestro, nulla più. Esiste però titolo maggiore di gloria per il discepolo di Gesù? Avviene finalmente quello che il canto al vangelo proclama citando un passo della lettera ai Filippesi: “Risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita” (Fil 2,15d-16a). La luce di cui si parla non è luce propria, ma la luce della vita del Signore nostro Gesù Cristo, capace di dare libertà, pace e gioia al cuore, generando nel nostro cuore parole di vita che a lui rimandano e che di lui fanno sognare.
P. Elia Citterio