II domenica di Quaresima
La liturgia inizia con la rivelazione del desiderio più profondo dei cuori: “Di te dice il mio cuore: “Cercate il suo volto”; il tuo volto, Signore, io cerco”, cantato dal salmo 26 e ora reso nella nuova versione: “Il mio cuore ripete il tuo invito: Cercate il mio volto!”. È il versetto che orienta la comprensione dell’evento della trasfigurazione alla quale tutto il salmo 26, il salmo responsoriale, rimanda, perché, come dice Paolo nella sua lettera ai Filippesi: “La nostra cittadinanza è nei cieli”. È la cittadinanza alla quale rimanda la gloria della trasfigurazione, intravista dai discepoli, impauriti e rapiti nello stesso tempo, per la quale la chiesa con la colletta fa supplicare per diventarne partecipi:“purifica gli occhi del nostro spirito perché possiamo godere la visione della tua gloria”. Gloria che splende sul volto di colui sul quale è proclamato: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”, come ripete il canto al vangelo. Viene delineato l’intero arco del percorso del discepolo di Gesù: ascoltarlo con desiderio, conoscerne il mistero e vederne la gloria. Tutto il cammino quaresimale è teso a questo obiettivo.
A quale condizione possiamo essere ammessi alla visione? Solo chi dal fondo del cuore, nonostante le sue resistenze e confusioni, dice con il salmista: “Di te dice il mio cuore: Cercate il suo volto”potrà intuire l’esperienza dei tre discepoli sul monte della trasfigurazione. Qualcosa della bellezza di quel Volto ha ferito allora i cuori dei discepoli, come del resto ogni nostro cuore aspetta di esserne ferito. Intervengono gli occhi, ma sono guidati dagli orecchi: la contemplazione del Signore avviene nello spazio creato nel cuore dalla voce misteriosa di cui gli occhi ne vedono i contorni di bellezza.Già al battesimo era stata udita la voce dal cielo, che proclamava Gesù come il Figlio prediletto, ma ora, per i discepoli, viene aggiunto: “ascoltatelo!”. I discepoli ancora non possono sapere fin dove li porterà l’ascoltare il loro Maestro e ancora non possono conoscere tutta la profondità di quell’espressione: “il mio Figlio, l’Amato”, come poi si rivelerà alle loro coscienze e ai loro occhi con la passione-morte-risurrezione di Gesù e con la testimonianza della loro vita, resa capace di portare quello stesso amore di Dio, visto in Gesù e da lui partecipato, in se stessi e per tutti gli uomini. Anzi, tutta la scena della trasfigurazione sembra abbia lo scopo, nella narrazione evangelica, di segnare i cuori dei discepoli in vista della prova della croce. Così non può che seguire la consegna del silenzio, perché l’evento divino, ancora misterioso al loro cuore, non si trasformi in un motivo di vanto o di confusione.
Il racconto della trasfigurazione segue la confessione di Pietro a Cesarea e il primo annuncio della passione da parte di Gesù ai discepoli increduli. Soltanto Luca però annota che Gesù aveva preso i discepoli con sé per passare la notte in preghiera sul monte, descrivendoli in preda all’oppressione del sonno e soltanto lui svela il contenuto del colloquio tra Gesù e i due uomini apparsi nella gloria con lui, Mosè ed Elia. Il tutto, evidentemente, allude alla scena futura del giardino degli ulivi nella notte del tradimento di Gesù. I discepoli sembrano accorgersi dell’evento della trasfigurazione all’ultimo momento, allorquando, svegliandosi, vedono Gesù, Mosè ed Elia in colloquio mentre si stanno congedando. Quasi nello stesso tempo li sorprende la nube e sentono la voce: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”, voce che costituisce il punto di fuga della visione.
La proclamazione della voce misteriosa, già sentita al battesimo di Gesù nel Giordano, è costruita sul salmo 2,7: “Egli mi ha detto: Tu sei mio figlio” e su Isaia 42,1: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui”. Lo conferma il redattore della seconda lettera di Pietro: “Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,16-18).
L’annotazione della preghiera sul monte allude alla rivelazione che sta per compiersi. Di per sé, però, la rivelazione non riguarda la visione della gloria, ma il senso misterioso di quella gloria. In un attimo folgorante, i discepoli vedono, sì, la gloria di Gesù, ma senza rendersi ben conto. La rivelazione della gloria ha a che fare invece con il segreto di Dio per l’uomo, che costituisce il colloquio tra Gesù e i due personaggi: “e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme”, ma che Pietro e i suoi compagni non sanno ancora reggere. Pietro, che non aveva potuto accettare una settimana prima l’umiliazione e la sofferenza del suo Maestro, ora davanti al Signore trasfigurato, non sa quel che dice. Se l’evento della Pasqua del Signore sta al centro del mondo, del senso del mondo, come possono i discepoli comprendere che fin dalla creazione del mondo il colloquio tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo verte sull’immolazione dell’agnello, figura dell’amore che Dio riversa sul mondo e di cui la gloria della trasfigurazione è l’allusione misteriosa? Sanno solo che quel Figlio, l’Eletto, è degno di Dio, custodisce il segreto di Dio per l’uomo e attendono di conoscerlo per davvero imparando ad ascoltarlo, ad ascoltarlo per seguirlo e a seguirlo per ascoltarlo finché si manifesti finalmente al cuore. Il senso della paura che prende i discepoli è appunto il segno del desiderio e del rischio insieme che caratterizza l’avventura dell’uomo toccato dalla presenza di Dio.
Eppure, nel riconoscere Mosè ed Elia in colloquio con Gesù, intuiscono che tutte le Scritture, di cui Mosè ed Elia costituiscono l’espressione riconosciuta, tendono a quella rivelazione, che tutte le Scritture si compiranno in quell’evento. Non solo, ma presentare il colloquio che avvienenella gloriasignifica collocare quell’evento nella dimensione divina, nella quale si radica la storia degli uomini.
L’esperienza misteriosa dei discepoli è la stessa che vive Abramo, con una fede così radicale nella promessa di Dio che si compie, nonostante l’evidenza umana contraria, da permettere anche a noi di fidarci dell’alleanza di Dio che in Gesù si rivela in tutta la sua profondità ed estensione. Così, se domandiamo, come nella colletta, di vedere la sua gloria, in realtà non facciamo che domandare a Dio di credere alla sua promessa, di fare esperienza del suo amore a tal punto da esserne tutti riverberati perché la gloria di Dio è l’amore che risplende dal trono della croce e la gloria dell’uomo è vivere di quello splendore.
P. Elia Citterio