IV domenica di Quaresima
L’antifona di ingresso della liturgia, parafrasando un passo del profeta Isaia, esprime a meraviglia l’esito della parabola per il cuore dell’uomo: “Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria” (Is 66,10-11). L’immagine è di un bambino ingordo che succhia al seno della mamma e se ne sazia beato. È l’immagine dell’uomo peccatore che, pentito, torna al suo Dio e ne scopre la tenerezza, quella che la parabola vuole proprio mettere in evidenza. Non è però un’immagine usuale per la fantasia religiosa dell’uomo. L’uomo preferisce distinguersi dai suoi simili, peccatori come lui, esibendo una parvenza di giustizia, senza tener conto dei sentimenti di Dio. Ed è proprio questo che rende la sua ‘giustizia’ non gradita perché non solidale con i sentimenti di Dio.
La parabola raccontata da Gesù va accolta nel contesto che l’ha generata (“I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro”, Lc 15,2): l’uomo preferisce nascondersi nella sua pretesa di giustizia. Ciò che la parabola smaschera è l’immagine gretta di Dio e la mortificazione della vita sottesa alla pretesa devozione.
È chiaro che la comunione con il padre resta il segreto della felicità dei due figli. Il punto è esattamente questo: riuscire a stare solidali con il padre, con la sua premura e la sua angoscia per poter godere della sua gioia. Ed è lo stesso Gesù a rivelare a quale livello di intimità si situa il segreto della felicità nella comunione con il Padre: “Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie” (Gv 17,10), come esattamente il padre della parabola dice al figlio maggiore.
La gioia traboccherà quando il cuore potrà dire di Dio: “Chi avrò per me in cielo? Con te non desidero nulla sulla terra” (Sal 72/73,25-26). Allora i due figli saranno nella pace e godranno la fraternità. Nel testo ebraico del salmo: “Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra. Se vengono meno la mia carne e il mio cuore, rupe del mio cuore e mia porzione è Dio per sempre”. Come dice un’antica orazione salmica: “Per noi il bene è aderire a te, Signore, ma tu accresci in noi il desiderio del bene, così che la speranza che ci unisce a te non vacilli per nessuna indecisione della fede ma perseveri nella saldezza della carità”.
A tutto questo si riferisce il pentimento del figlio minore, che si risolve nel tornare dal padre, senza affogare in sentimenti di indegnità e disperazione: “ritornò in sé e disse….Si alzò e tornò da suo padre”. Tornare non significa riprendere la situazione prima del peccato, come se si trattasse di una questione tra me e me, ridando forza eventualmente agli ideali abbandonati. In termini psicologici, il nostro super-io non alimenta mai la vita del cuore. Significa tornare all’amore benevolente di Dio, che ha temuto per la nostra incolumità e ha premura che noi stiamo bene. Tutti i segni di premura del padre verso il figlio che è tornato (il vestito, l’anello, i sandali) alludono alla benevolenza del suo amore che non aspetta altro se non di riversarsi. Il pentimento ha a che fare con il ritrovare le energie del cuore per vivere la vita nella gioia. È ciò a cui allude la prima lettura con la circoncisione dei figli di Israele nati dopo l’uscita dall’Egitto, nella lunga traversata del deserto prima di arrivare alla terra promessa, spiegata da Giosuè: “Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto” (Gs 5,9).
Se s. Paolo proclama che il ministero della chiesa è la riconciliazione, come riporta la seconda lettura, vuol dire che l’esperienza fondamentale dell’uomo è l’accoglienza del perdono di Dio, in Cristo, esperienza così fondante della nuova umanità a noi donata in Cristo, che tutta la vita umana assume la tensione di estendere a tutto e a tutti il perdono ricevuto, nella condivisione comune. E se, come si legge nella stessa lettera: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione”, 2Cor 5,18), Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno. “Siamo infatti collaboratori di Dio” (1Cor 3,9). Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all’opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature, come la stessa parabola di Gesù rivela. Parlare di redenzione, di salvezza, di grazia, significa alludere a questa opera di riconciliazione in atto nella storia, come dice Gesù: “Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco” (Gv 5,17). Opera appunto la riconciliazione in Gesù, nostra pace (“Egli infatti è la nostra pace“, Ef 2,14). Noi tutti siamo chiamati a concorrere alla realizzazione di questa ‘opera’. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Così si fa esperienza di essere solidali con i sentimenti di Dio, perché in questo consiste la letizia dell’uomo, la cui porta di accesso è il pentimento, come per il figlio che rientra in se stesso e pensa a suo padre decidendo di ritornare a casa, nonostante la sua vergogna.
Nel particolare della festa che il padre allestisce si scorge un’allusione misteriosa. É la festa della grande cena per gli invitati che non vogliono venire (Lc 14,15-24), la festa del banchetto di nozze che il re vuole per il figlio (Mt 22,1-14). Ma soprattutto è la festa in cui si uccide il vitello grasso. Come non pensare al ‘sacrificio’ del figlio amato, inviato dal padre a riscuotere i frutti della vigna (Lc 20,9-19)? Così, il far festa non richiama semplicemente alla gioia, ma alla gioia dell’amore di Dio che vuole radunare i suoi figli e non teme di vedere il figlio ‘sacrificato’ perché l’amore deve rivelarsi in tutta la sua immensità. La gioia ha a che vedere con l’esperienza di quell’amore sconfinato che solo permette di attraversare il male senza restarne vittime e che in Gesù ha il suo testimone per eccellenza.
Ho notato che nella parabola il padre non parla mai direttamente ai figli, come questi non parlano mai direttamente tra loro. Sono i figli a parlare direttamente al padre. Del padre la parabola descrive il suo agire benevolo e pieno di premure e tenerezze, soprattutto con il figlio ritornato a casa. Solo alla fine il padre si rivolge al figlio maggiore ricordandogli che è necessario far festa, in ciò rivelando tutto il suo intimo sentire. Se i due figli sono l’immagine del popolo d’Israele e del popolo dei pagani, allora il rivolgersi al figlio maggiore allude alla rivelazione di Dio a Israele, che Gesù richiama e che mostra compiuta nella sua premura per i pubblicani e i peccatori. Tutti e due sono chiamati alla mensa dell’amore di Dio, che fonda la loro fraternità, nell’unico Padre di tutti.
padre Elia Citterio