Domenica delle Palme
La liturgia di oggi è dominata da un’acclamazione che la percorre tutta: viene il re della gloria!
Se la celebrazione è suddivisa in due momenti, la commemorazione dell’entrata festosa di Gesù a Gerusalemme e subito dopo della passione di Gesù, ciò che unisce i due tempi è appunto questo grido, prima esultante, festoso, poi sommesso, drammatico: Gesù accetta la proclamazione della sua regalità proprio sapendo che finirà sulla croce. Da lì si mostrerà in verità quale re di gloria sia e di quale gloria si tratti.
I salmi che scandiscono la processione solenne di accompagnamento alla sua entrata nella città santa sono i salmi 23 (24) e 46 (47). Sono percorsi dall’acclamazione: chi è questo re della gloria? È il re di tutta la terra. La prima acclamazione è voce degli angeli, la seconda voce delle genti. Il significato di fondo, nell’attribuire a Gesù la profezia dei salmi, è dato dal fatto di equiparare l’ingresso del Messia di pace in Gerusalemme alla sua entrata in cielo con l’ascensione dopo la risurrezione. I due eventi si sovrappongono per illustrare il mistero di quel Messia che entra trionfante in Gerusalemme per subire la passione e svelare la grandezza dell’amore di Dio per gli uomini, ma per suggerire che oramai il cielo è aperto e non ci sono più barriere (le porte nel linguaggio del salmo) che impediscono la comunione con il Dio della pace e della misericordia. Un’antica interpretazione di s. Ambrogio che spiegava la morte ignominiosa di Gesù nell’ottica della redenzione degli uomini: “non ha perso nulla annientandosi!”. Ha guadagnato tutti al cielo.
È caratteristico che nel vangelo di Luca il canto degli angeli all’entrata nel mondo del Salvatore (Lc 2,14) e il canto dei discepoli all’entrata del Salvatore in Gerusalemme (Lc 19,38) si ripetano: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli”. È il canto della pace messianica, che viene dal cielo e conquista al cielo e Gesù mostrerà in cosa consista quella pace proprio con la sua passione e morte e risurrezione. La stessa antifona di ingresso della messa, che viene anticipata nella processione con i rami di ulivo, lo sottolinea: “Gloria a te che vieni, pieno di bontà e di misericordia”.
Con la colletta della messa: “Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce …” non c’è più ombra dell’esultanza di prima. Viene letto il terzo canto del Servo del Signore del profeta Isaia: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori … non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Si canta il salmo 21 (22): “hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi… Si dividono le mie vesti, salmo che inizia con il grido del crocifisso: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Potrebbe però essere letto con questa sfumatura: Dio mio, in vista di che cosa, per quale scopo mi hai abbandonato? Il crocifisso esprime la sua angoscia con le parole di fede del salmo, che poi assicura: “Tu mi hai risposto” (Sal 21,22). Il dramma è che l’uomo rinuncia radicalmente alla volontà di salvare se stesso, ma proprio per questa rinuncia si affida totalmente al suo Dio. Le stesse beffarde espressioni di coloro che sfidano Gesù sulla croce si riferiscono a questo intimo dramma: ha salvato altri, salvi ora se stesso, se è figlio di Dio! Ma Gesù, rinunciando a salvare se stesso, diventa appunto il testimone più assoluto dell’amore del Padre per i suoi figli svelando la grandezza e la potenza del suo amore. Amore che s. Paolo canta come passione d’amore per gli uomini: “… svuotò se stesso assumendo una condizione di servo … umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. E viene proclamato solennemente il racconto della passione di Gesù.
Proprio su questo Gesù la chiesa invita a fissare gli sguardi, in tutta la potenza della sua rivelazione quanto all’amore di Dio per gli uomini. Quanto sono preziosi gli uomini per lui! Quanto può essere rivoluzionata la vita se vissuta dentro e a partire dal suo amore! Come stupendamente ci ricorda la lettera agli Ebrei: “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo” (Eb 12,2-3). E quando la colletta ci propone l’immagine di Gesù umiliato non è per suggerirci un modello di umanità sofferente. Gesù resta modello perché, per realizzare la nostra vocazione all’umanità, non possiamo non rifarci a lui che di questa umanità ha svelato tutta la bellezza nel suo stare fedele in comunione con Dio, dalla parte degli uomini ed in comunione con gli uomini, dalla parte di Dio. E la sua bellezza traspare proprio nel momento in cui, sfigurato dal dolore e calpestato, non rinnega l’alleanza di Dio ed apre, per lui e per tutti, la promessa di una vita inattaccabile dalla morte. Ed è la sua bellezza a generare speranza, quella di cui il mondo oggi, come sempre, ha tremendamente ed urgentemente bisogno.
Come dice una bella orazione salmica a conclusione del salmo 23 (24): “Eleva, Signore le porte del tempio che è in noi, affinché siano porte eterne. Il Cristo, Re della gloria, entri attraverso di esse come nel cielo e plachi le battaglie contro gli spiriti malvagi, affinché tutta la nostra terra ti appartenga, insieme a tutti coloro che la abitano”.
padre Elia Citterio