III Domenica di Pasqua
La proclamazione del vangelo oggi comprende due scene: la pesca miracolosa con l’invito di Gesù a mangiare con lui e la triplice confessione di Pietro. È la terza volta che Gesù compare ai discepoli, se escludiamo la manifestazione del Risorto a Maria Maddalena, la prima a cui Gesù appare. Sembra di intuire che, a fronte della titubanza dei discepoli, pur inviati in missione nel mondo, il modello del rapporto del discepolo con Gesù Risorto sia offerto proprio dalla Maddalena, a indicare che la dimensione profonda dell’incontro con Gesù si compie solo nell’amore.
La prima scena, con i discepoli che non prendono nulla tutta la notte e che obbedendo all’invito del Risorto pescano una gran quantità di pesci che poi tirano a riva, dove Gesù li attende per consumare con loro un pasto, si rapporta alla missione degli apostoli nel mondo che continuano la stessa missione di Gesù, realizzando quello che Gesù aveva detto in precedenza: “Vi farò pescatori di uomini” (Mt 4,19). L’esito di questa missione è di riunire tutti i figli di Dio dispersi attorno alla mensa dell’Agnello perché l’amore di Dio conquisti tutti. Nella tradizione la scena del pesce sulla brace con il pane è stata spiegata in riferimento alla umanità di Gesù che si cuoce al fuoco della carità e la presenza del pane in riferimento alla sua divinità. Ma quello che è singolare è l’invito che percorre la nostra storia e che risuona potente e sommesso, come del resto è stata la confessione di Tommaso: “Venite e prendete! Il cibo che vi attende è lo stesso Signore Gesù Cristo, Dio e uomo; uomo per amor nostro, divorato dal fuoco della carità, Dio eterno, pane degli angeli. Venite tutti e saziatevi: venite e prendete” (Ludolfo di Sassonia). S. Agostino spiega: Piscis assus, Christus passus, vale a dire: il pesce arrostito rappresenta Cristo nella sua passione, e proprio in quanto rinnegato e ucciso, è cibo per tutti, a tutti porta vita. Il particolare, misterioso, del numero dei pesci tirati a riva, 153, è variamente interpretato. Riporto solo l’interpretazione di Girolamo (si pensava che esistessero 153 tipi di pesci e quindi il numero significa la totalità dell’umanità) e di Agostino (153 è un cosiddetto numero triangolare, ottenuto con la somma dei numeri da 1 a 17. Dato che 17 è formato da 10 e 7, si interpreta come i dieci comandamenti e i sette doni dello Spirito, sempre a sottolineare l’idea di totalità).Il pasto comune però comporta due ‘offertori’ di sapore eucaristico: c’è il pesce preparato prima da Gesù e il pesce portato dai discepoli. Vi si può ravvisare il dono di Gesù ai suoi e il dono degli uni agli altri nell’amore che risponde a quello di Gesù.
In questo senso, se mettiamo in relazione il brano con la prima lettura degli Atti degli apostoli, dove viene segnalato la ‘gioia’ dei discepoli che sono giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù (cfr. At 5,41), comprendiamo l’orizzonte in cui situare la missione dei credenti nel mondo. Il fuoco di carità che ha cotto l’umanità di Gesù per farsi cibo è lo stesso fuoco che cuoce l’umanità dei discepoli perché a tutti appaia l’amore del Signore per noi. Quel fuoco è descritto nei primi capitoli degli Atti come la forza e la franchezza con cui gli apostoli danno testimonianza della risurrezione di Gesù. Non si tratta però semplicemente di una testimonianza di convalida (sì, è proprio vero che Gesù, il crocifisso, è risorto!) ma di una testimonianza di dinamismo (se Gesù è risorto, allora l’amore suo ci ha conquistati al punto che ha trasformato la nostra vita tanto da farci vivere in e di quell’amore. Il segno? La gioia nelle persecuzioni. La gioia non è più pescata negli eventi, ma nella libertà dell’amore).
La seconda scena riguarda l’apostolo Pietro. Si ripete alla fine la stessa scena degli inizi. Gesù chiama Pietro e lo invita a seguirlo. Ma se il primo incontro era l’ingresso in una specie di apprendistato, ora, l’ultimo incontro, è l’entrata nella sequela compiuta di Gesù, crocifisso e risorto. Nel vangelo di Giovanni, il primo incontro di Gesù con Pietro viene narrato in 1,42 quando Gesù gli dice: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro”. Nel corso della narrazione evangelica viene sempre denominato Simon Pietro o Pietro. Solo alla fine, di nuovo, Gesù lo chiama: “Simone, figlio di Giovanni…” per tre volte. Perché lo chiama con il suo vecchio nome? Sembra che Pietro, con tutto l’amore che porta al suo Maestro, abbia ancora bisogno di qualcosa di essenziale, di decisivo, per realizzare quello che il nome, Pietro, impostogli da Gesù, significa per lui e per la comunità dei suoi fratelli.
Nell’intimità che si era creata, dopo aver mangiato, Gesù si rivolge a Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”, ripetendogli la domanda altre due volte senza più aggiungere ‘più di costoro’. Nell’ultima cena Pietro aveva protestato: “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!” (13,37) e poi, nella stessa notte, l’aveva rinnegato tre volte. Era chiaro a tutti che Pietro amava il Signore più di tutti per la sua impetuosità, ma ora Pietro non lo può più riconoscere perché era stato l’unico a rinnegarlo. E quando, la terza volta, Gesù gli dice: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?” Pietro non può che restare addolorato perché evidentemente si rendeva conto della sua posizione e, finalmente conquistato alla nuova modalità di sequela che Gesù esigeva, risponde affidandosi: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. La sua confessione equivale a quella di Tommaso: sommessa e potente, confuso e grato. Come gli dicesse: Signore, tu sai tutto, tu sai che io non pongo in me alcuna fiducia e nemmeno intendo pormi al di sopra degli altri, tu sai che il mio cuore è tutto per te.
E quando Gesù, dopo avergli affidato le sue pecorelle, invitandolo a pascerle e a guidarle, gli rivela che lo seguirà fino alla morte, è come se gli dicesse: ora comprendi quello che ti dicevo: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo” (Gv 13,7). Dai per le mie pecorelle quella vita che volevi mettere a rischio per me, quando nell’audacia dell’amor tuo dicevi: morirò per te! Non sapevi che per dare a te la forza del sacrificio dovevo precederti e patirlo prima io; non sapevi che era necessaria la mia morte in croce affinché tu potessi sopportare il martirio.
Solo ora la sua sequela diventa quella voluta da Gesù. Qui avviene la trasformazione definitiva di Pietro. In effetti, per l’apostolo, non si tratta semplicemente di dare la vita per Gesù – cosa che può avvenire anche dentro una visione delle cose mondana o ideologica! – ma di darla condividendo i suoi segreti, il suo sentire, la sua modalità di azione nel mondo perché tutti abbiano la vita. Potremmo anche interpretare: “Signore, non sono degno del tuo amore, e del mio non posso fare gran conto, ma tu conosci il mio cuore, tu sai che ti vuole bene”. Quando un uomo professa il suo amore come balbettando, appena sussurrando, vuol dire che il suo amore va oltre ogni forma di orgoglio o di pretesa e sarà immune dal tarlo del predominio, sotto qualsiasi forma si cerchi: in quell’amore c’è tutto il suo cuore perché si fida totalmente dell’accoglienza dell’altro. E non ha da esibire altro di sé. E quando l’amore è di tal fatta, allora può assumere il compito pastorale in nome del Signore: “Pasci le mie pecore”. A tutti verrà inviato, di tutti si prenderà cura, e di gran cuore, perché tutti e ciascuno appartengono a quel Signore, il cui amore l’ha conquistato e l’amore per il quale costituisce il vero obiettivo del suo interessamento per tutti, perché tutti lo riconoscano e trovino riposo. Gesù può predirgli tranquillamente il suo martirio: l’intimità goduta, finalmente, non sarà più insidiata, così come è avvenuto per Gesù.
padre Elia Citterio