Ascensione del Signore
Con l’ascensione al cielo di Gesù viene spiegato il senso profondo della risurrezione: Gesù non è più nell’orizzonte terreno nel quale era entrato con la sua incarnazione, ma è nella gloria della divinità. L’affermazione della nostra fede è chiara: in cielo è entrato l’uomo, nella sua corporeità; non solo, ma ci è entrato con i segni indelebili della sua passione, non più visti come richiamo alla cattiveria degli uomini, ma come prova dell’immensità dell’amore di Dio per gli uomini. Tanto che gli angeli, se vogliono conoscere il loro Signore nella sua immensità, hanno dovuto aspettare il suo ingresso nei cieli con i segni della passione nella sua carne. Commentando il salmo 46 (47), letto in rapporto al mistero dell’ascensione, i Padri spiegano che agli angeli viene rivelata la sapienza di Dio che si è compiuta nel Cristo, in favore degli uomini. Gregorio di Nazianzo invita il fedele così: “Se salirà in cielo, tu sali con lui: diventa uno degli angeli che lo accompagnano e lo accolgono… poni innanzi a te la bellezza della stola del suo corpo che ha sofferto, che è stato reso ancor più bello dalla Passione, e che splendeva della sua natura divina, della quale niente è più amabile e più bello” (Or. 45,12).
E s. Ambrogio, immaginando le porte del cielo che accolgono il Cristo che vi ascende, come sono descritte nel salmo 23 (24), ha queste stupende parole: “… era come se le porte del cielo, che l’avevano visto uscire, non fossero più abbastanza grandi per riaccoglierlo. Non erano mai state a misura della sua grandezza, ma per il suo ingresso di vincitore occorreva una via più trionfale: davvero non aveva perso nulla ad annientarsi! Le porte eterne rimangono, ma si alzano: non è un uomo che entra, è il mondo intero, nella persona del Redentore di tutti” (De vera fide, 4,1).
Il racconto dei vangeli e degli Atti degli apostoli colloca l’evento dell’ascensione nella percezione diretta dei discepoli: vedono con i loro occhi Gesù sparire in alto, ma con la sensazione potente che Gesù è ormai presente nei loro cuori, è con loro sempre. Il segnale di questo ‘vedere’ con il cuore e non solo con gli occhi fisici è dato dalla gioia. Il loro Maestro non lo vedranno più e sono contenti! Dal punto di vista psicologico, è assurdo; dal punto di vista del cuore, è la vera consolazione. Si compie in verità, proprio a livello di sensazione del cuore, quello che Gesù dice alla fine del vangelo di Matteo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). E la cosa diventa possibile, realissima, per quello che dice Luca nell’ultimo incontro con i discepoli, prima che sparisse dalla loro vista: Gesù, risorto, apre la mente all’intelligenza delle Scritture (Lc 24,45). Sono le Scritture ad illuminare il mistero di Gesù e sono i sacramenti, compreso il sacramento della fraternità, ad aprire gli occhi ai discepoli per scorgere la presenza del Signore con loro. I due discepoli di Emmaus, confidandosi le sensazioni segrete dei loro cuori mentre ascoltavano le spiegazioni del misterioso pellegrino e dopo averlo riconosciuto nello spezzare il pane, riportano: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava[letteralmente: ‘ci apriva’, stesso verbo usato nel brano odierno]le Scritture?” (Lc 24,32). Ecco il rimando generatore di intelligenza per la chiesa: le Scritture parlano di Gesù e i cuori lo riconoscono presente nella celebrazione dell’eucaristia e del sacramento della fraternità, presenza che si rivela nella sua potenza di rivelazione con l’intelligenza delle Scritture assimilate.
L’annotazione dell’ultimo gesto visivo di Gesù, il suo benedire i discepoli (“Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”, Lc 24,51) rivela appunto la messa in moto di questo circuito virtuoso: apre l’intelligenza alle Scritture e apre le Scritture all’intelligenza, nel fuoco della sua presenza nei cuori, testimoniata dalla fraternità condivisa. Il movimento che scatena è incontenibile perché quel movimento non riguarda semplicemente la chiesa, ma il mondo: quel movimento è per il mondo. Difatti i discepoli, con l’ascensione di Gesù, sono consacrati come ‘apostoli’, inviati al mondo. Il contesto dell’evento dell’ascensione è missionario, perché risponde alla perenne domanda messianica: quando verrà il regno di Dio? Gesù ha spiegato ai suoi discepoli che la domanda sui tempi è fasulla perché non riguarda gli uomini, ma soltanto Dio. Quello che riguarda gli uomini è che quel regno, di cui portano sensazione nei cuori per la presenza del Vivente in loro, sia testimoniato nel suo splendore, nella sua dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini, dovunque, sempre, in ogni tempo.
Dopo l’ascensione, è appunto il tempo della testimonianza. Gesù invita i suoi apostoli a non indagare sul tempo, ma a stare nel tempo, a starci con la forza dello Spirito per essere testimoni di lui in questo mondo (cfr. At 1). Ora è il tempo della conoscenza del Figlio dell’uomo, il tempo della fraternità ricostituita nella potenza dall’alto, nella potenza dello Spirito Santo. Perché essere testimoni del Signore Gesù nel mondo vuol dire partecipare alla testimonianza dello stesso Signore, che ha fatto risplendere nel mondo il volto di Dio nel suo amore per gli uomini; vuol dire godere di quella gioia, pace e libertà che il mondo desidera ma non conosce e di cui invece il Risorto fa dono ai suoi senza che nessuno possa rapirle dai loro cuori.
La testimonianza è caratterizzata dall’esperienza di una gioia speciale, abbinata alla promessa dello Spirito Santo che di lì a poco gli apostoli avrebbero ricevuto: “Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (Lc 24,52). La forza dello Spirito, che è uno spirito di letizia, agisce nei cuori rispetto a tre contesti ben precisi e interdipendenti: il riconoscimento della realtà e dell’identità del Risorto, lo stesso che ha patito per noi; l’intelligenza delle Scritture di cui il Risorto mostra il compimento (cfr. Lc 24,46-48); la missione nel mondo. Così l’evento dell’ascensione al cielo di Gesù acquista tutto il suo senso. Il cielo non è il cielo fisico, ma il luogo dove lui abita nella sua santità. E dove può essere percepita la santità se non nel vivere fraterno? Così, la predicazione alle genti non riguarda semplicemente l’annuncio di ciò che Dio ha operato per gli uomini, ma comprende anche il mostrare da parte dei discepoli che tale annuncio si è tradotto per loro in splendore di vita.
Se, come dicevo, il vangelo di Luca termina con l’immagine di Gesù benedicente, ciò significa che quella benedizione costituisce il sigillo perenne della volontà di bene di Dio per l’uomo. Volontà, nella quale si radica tutta la dignità dell’uomo e il suo impegno di responsabilità di fronte al mondo. Per questo, l’autore della lettera agli Ebrei, richiamando i fedeli alla fede in Gesù, asceso al cielo, esorta: “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso” (Eb 10,23), colui che ora porta nella gloria i segni della sua passione perché ognuno di noi si possa avvicinare con fiducia al suo trono di grazia, che è per noi.
padre Elia Citterio