XXIV domenica del tempo ordinario
Il capitolo 15 del vangelo di Luca è un inno alla misericordia di Dio che in Gesù viene manifestata in tutto il suo splendore. Ciò che le parabole sottolineano, ragione convincente per il nostro cuore della fiducia che merita l’amore di Dio, è una cosa sola: la gioia di Dio nel suo essere misericordioso. Il segreto è così celato nella Legge che Gesù si industria in mille modi per svelarlo ai farisei, che della Legge avevano fatto la scoperta del senso della vita e la regola di condotta.
Gesù non si cura degli angeli (le 99 pecore al sicuro, secondo l’interpretazione dei Padri) ma va in cerca dell’uomo peccatore e la sua gioia sta proprio nel farsi carico dell’uomo che ha ritrovato tanto da condividerla con gli angeli. Gesù non può disinteressarsi della sua immagine che struttura il cuore dell’uomo (la moneta che porta l’effigie del re) tanto da darsi pena per ciascuno di noi finché quell’immagine possa tornare al suo splendore. Il padre della parabola esprime la sua gioia nel vedere il figlio perduto ritornare tanto da fargli festa, nel desiderio di condividerla con il figlio maggiore. Il mistero a cui alludono le parabole è l’eterno, solidale, amore di Dio per l’uomo. La Legge, quando di quell’amore non si fa più eco, non svela più il volto di Dio e non rende onore a Dio che vuole essere conosciuto nella sua misericordia. Ricordo per inciso che la parabola della pecora perduta e ritrovata è l’annuncio evangelico della festa del SS. Cuore di Gesù.
Il mistero e il dramma di quella gioia sono espressi splendidamente da s. Pietro Crisologo: “Ascolta l’Apostolo: ‘Egli non risparmiò il proprio Figlio, ma lo diede per tutti noi’ (Rm 8,32). Questo è il vitello che ogni giorno e perennemente viene immolato per il nostro banchetto”. È su questa percezione che la chiesa prega dopo la comunione: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo Santo Spirito”. Non prevalga in noi il nostro sentire, ma lo splendore della misericordia del Signore che abbiamo conosciuto quando abbiamo creduto nel Signore Gesù, quando abbiamo ascoltato la sua parola, quando l’abbiamo visto trafitto e quando abbiamo accolto il suo Spirito.
Per noi è difficile cogliere l’intensità drammatica che comporta la rivelazione del Signore come misericordia per noi. Meditare sulla prima lettura è il modo migliore per aprirci allo splendore della rivelazione evangelica. Si dovrebbero leggere d’un fiato i capitoli 32-34 del libro dell’Esodo che narrano del peccato del vitello d’oro e degli eventi drammatici connessi. Mosè si pone come intercessore per il popolo, al colmo dell’angoscia e tremendamente consapevole delle conseguenze della stoltezza del popolo che ha rotto l’alleanza col suo Dio. Prima ricorda a Dio le sue promesse, poi si identifica con il popolo peccatore al punto da essere condannato o salvato insieme a lui, poi esige non solo il perdono di Dio ma che Dio continui a guidare il popolo personalmente stando in mezzo a loro, per finire con la richiesta, suprema, di vedere la gloria di Dio. E come Dio si manifesterà? Ecco, il nome nuovo di Dio che sentirà proclamare nella visione sul Sinai sarà: ‘Dio misericordioso e pietoso …’ (Es 34,6; Sal 86,15). Qui vale la verità proclamata in tutte le Scritture: Dio è Dio, e non un uomo! Dio è Misericordia senza limiti perché fedele al suo amore. Il peccato non resta impunito, ma sarà lui stesso che se ne assumerà il peso nelle sue conseguenze inchiodandolo alla croce e sacrificando se stesso. Il pastore, che va in cerca della pecora perduta e se la mette sulle spalle tornando a casa, allude al dramma della passione di quel Figlio dell’uomo che è angosciato finché il fuoco che è venuto a portare non si accenda e possa essere noto a tutti il segreto dell’amore di Dio per i suoi figli. Il salmo 50 collega la supplica del perdono (‘cancella il mio peccato’) proprio con la capacità di Dio di rinnovare (‘crea in me un cuore puro’), con la conseguenza che la misericordia di Dio verso di noi è una misericordia ‘giustificante’: non semplicemente ci viene perdonato il peccato, ma ci è attivata una nuova modalità di accesso alla vita, come partecipazione ai sentimenti di Dio per i suoi figli (‘siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso’, Lc 6,36). Sarà ormai la misericordia la rivelazione dell’umanità restituita al suo splendore.
In effetti, qual è la giustizia gradita davanti a Dio? Qual è il criterio della rettitudine? Il principio di rettitudine è la condivisione dei sentimenti di Dio, è la condivisione della sua letizia nell’amore agli uomini. Lo esprime anche la preghiera sulle offerte: “… ciò che ognuno offre in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”, vale a dire: quello che di noi offriamo al Signore, se non si risolve nella manifestazione della misericordia di Dio che raggiunge il cuore dei nostri fratelli, non riuscirà gradito. Il nostro cuore, invece, irretito nelle illusioni del peccato, è più aspro di quello di Dio; crede di salvare una specie di nobiltà teorica condannandosi, rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Allora è il momento di ricordargli che Dio è più grande e se il cuore lo riconosce esce dalla sua solitudine, si umilia e ritrova speranza, perché può consegnarsi fiducioso a quell’amore di misericordia di cui le tre parabole di oggi illustrano il mistero.
È evidente che Gesù, con queste parabole, vuole rispondere alle critiche dei farisei sulla sua condotta perché accoglie pubblicani e peccatori. Vuole come rispondere alle mormorazioni del cuore dell’uomo che non è più capace di onorare i suoi fratelli perché non sa più riconoscere il mistero di Dio nel suo amore ai suoi figli. Con il racconto delle tre parabole, Gesù non cerca semplicemente di giustificare la condotta di Dio verso gli uomini, ma svela il mistero della sua Persona, lui che si definisce ‘mite e umile di cuore’ (Mt 11,29), via-verità-vita che mostra il Padre nella grandezza del suo amore per i suoi figli.
padre Elia Citterio