XXVIII domenica del tempo ordinario
Potremmo definire il tema specifico della liturgia in questi termini: la fede che trabocca in gratitudine rende invincibili. Così mi suonano le parole di Gesù: “Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato” (Lc 17,19). Se ci chiedessimo: qual è il criterio della vera devozione gradita a Dio? Non avremmo che da riferirci al versetto di 1Ts 5,18 del canto all’alleluia: “In ogni cosa rendete grazie: questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi”. Vale a dire: se rendete grazie in ogni cosa, allora siete attenti all’appello di Dio, all’invito del suo cuore, che è quello di farci fare esperienza della sua volontà di benevolenza nei nostri riguardi attraverso gli eventi della nostra vita, che così diventa storia sacra, storia dell’incontro dei nostri affetti, di noi e di Dio; benevolenza, che si è manifestata in Gesù, di cui siamo chiamati a vedere il Volto e nella cui compagnia siamo invitati a camminare. A dire il vero, al rendere grazie Paolo unisce l’essere sempre lieti e il pregare ininterrottamente. Le tre cose insieme segnalano che il cuore ha presagito la presenza del suo Salvatore, che l’ha riconosciuto e al quale volgerà tutto il suo desiderio. A sottolineare la fecondità dell’atteggiamento del saper rendere grazie, i padri del deserto ripetevano che il rendere grazie in tutto solleva da ogni altro obbligo. Potessimo rimanere sempre in quell’atteggiamento, eviteremmo ogni intrusione del male nel nostro cuore.
È a questa conclusione che il brano della guarigione dei dieci lebbrosi guida. Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e l’annotazione di Luca mette in risalto il fatto che ciò che avviene deve essere compreso nell’ottica di quel viaggio, per lo scopo segreto di rivelazione del mistero di Dio che si compirà. Non solo, ma subito dopo il racconto dei dieci lebbrosi segue la domanda dei farisei sul regno di Dio: “Quando verrà il regno di Dio?”. In ottemperanza alla legge di Lev 13,46, i dieci lebbrosi si fermano a distanza e gridano al Signore il loro tormento, chiedendo di essere guariti. Il loro dramma non deriva solo dalla malattia che lacera le loro carni, ma anche dal fatto che venivano esclusi dalla comunità, non potevano accedere al tempio per il culto. La lebbra evoca direttamente il destino orribile del peccato che insidia la fraternità, irrigidisce i rapporti, contamina a tal punto il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separa e opprime, impedisce al volto di Dio di risplendere. La guarigione di un lebbroso da parte di Gesù allude sempre alla purificazione del cuore che torna così a far risplendere i rapporti di comunione e ridà accesso al mistero di Dio. Nel linguaggio del narratore e in quello di Gesù la guarigione è sempre chiamata ‘purificazione’; nel sentimento dell’uomo guarito il termine è appunto: sono stato guarito. Alla fine, purificazione e guarigione suonano come salvezza.
In dieci chiedono di essere guariti. Tutti sono sinceri e tutti e hanno fiducia in Gesù perché credono alla sua parola e si muovono per andare a presentarsi ai sacerdoti. Lungo il cammino si ritrovano guariti. La loro fiducia è stata premiata. Nove proseguono, uno solo torna indietro per ringraziare Gesù. È qui che il racconto rivela la sua vera portata. I nove che proseguono non si accorgono di quel che è avvenuto in verità. Non hanno sentito in loro la parola del profeta: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19) o, per dirla con il v. 2 del salmo 97 (98), non hanno compreso che “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza”.
Tutto ciò che riceviamo e abbiamo, tutti i doni di Dio comportano un’intenzione segreta, un appello al nostro cuore da parte di Dio. Il rimprovero che Gesù fa ai nove lebbrosi rivela la sordità di fronte a questo appello. L’uomo si confonde con il dono che ottiene e si richiude su di sé. È rimasto sordo e cieco, non ha visto di cosa si trattava realmente.
Gesù, accogliendo il samaritano che torna a ringraziarlo, dice: “Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. ‘Rendere gloria’ è un’espressione semita per ‘dire la verità’. Spesso l’uomo dice cose vere, ma senza dire la verità. Oppure, in altri termini, diciamo di essere sinceri, ma spesso non siamo veri. Il fatto è che la sincerità ha a che fare con il dire quello che sentiamo, mentre la verità ha a che fare con quello che siamo. Ringraziare di un dono ricevuto non significa solo esprimere la propria riconoscenza ma prendere atto della benevolenza dell’altro che ci fa sussistere. Dire la verità implica sempre la responsabilità del nostro essere di fronte a Qualcuno. Questo è mancato ai nove che si sono dileguati, mentre è risultato così determinante per la conversione del samaritano.
L’aspetto straordinario di questa situazione risalta dalla proclamazione del salmo 97 (98), al v. 1, che nel testo ebraico suona: “La sua destra lo ha salvato”. Il Signore, non salva semplicemente i suoi figli, ma salva se stesso. Si può rivelare Re e Signore solo salvando i suoi amati, solo agendo per amore. Ma se questa intenzione segreta di Dio non è percepita, impediamo a Dio di rivelarsi al nostro cuore e quindi non può avvenire la conversione, come Gesù dice del samaritano che è tornato indietro a ringraziare: “Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato”. La conversione è appunto ritornare a gustare l’alleanza con Dio vivendo ormai la propria vita nella logica e nel calore di quell’alleanza. Se il rendere grazie è espressione dell’incontro avvenuto, allora tutta la nostra vita ne sarà irradiata perché sono state toccate le radici del cuore.
Con molta sagacia s. Bernardo, commentando il salmo 97 (98), vi vede descritte tre venute del Cristo che definiscono la salvezza di Dio per l’uomo: la prima, con l’incarnazione, Cristo si fa nostra redenzione (cfr. Lc 2,30-31: si è manifestata la sua salvezza); la seconda, con la risurrezione e la venuta gloriosa alla fine dei tempi, quando Cristo si rivelerà come nostra vita; la terza, intermedia alle prime due, con la venuta in Spirito e potenza, diventando il Cristo nostro riposo e consolazione. La conversione ha a che fare con questa terza venuta che dalla prima ci guida alla seconda e si rivela al nostro cuore come riposo e consolazione, come Gesù dice di sé: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita” (Mt 11,28-29).
padre Elia Citterio