Terza domenica di Avvento

Giovanni Battista si trova in prigione e sente parlare di quello che Gesù fa. Non era proprio quello che si era immaginato rispetto al messia che aveva indicato presente nel mondo. È lui oppure lui fa parte di coloro che precedono la venuta del messia? La domanda, nel suo risvolto angosciante, rivela la libertà del mistero di esprimersi al di fuori dei nostri schemi. Lo ‘scandalo’ è sempre in agguato. Perché il messia si muove così? Come mai la sua azione non corrisponde a quello che ci eravamo immaginati, che ci aspettavamo, che sembrava corrispondere alla stessa promessa di Dio? Non è solo la domanda del Battista, ma di tutti i credenti.

Gesù risponde con le parole della Scrittura. L’evangelista assembla una serie di passi profetici, di Isaia in particolare, per esprimere ciò che di importante aveva da dire a Giovanni Battista. Cita Is. 26,19; 29,18; 35,5; 61,1. E proprio con questa ultima citazione ha da dire qualcosa di particolare al cuore del Battista. Il v. 1 del cap. 61 di Isaia suona: “Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri”. Nel testo evangelico compare solo la frase: ‘ai poveri è annunciato il vangelo’. Ma chi annuncia il vangelo è colui sul quale riposa lo Spirito del Signore e tra le sue azioni rivelatrici c’è anche quella di liberare i prigionieri. Ma Giovanni è in carcere: verrà liberato? No. E allora Gesù aggiunge: “E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo”. Così Gesù esalta la fede del Battista, lo rassicura. Gesù non gli risponderà: sì, sono io il messia; ma: tu sei l’Elia che deve venire. Su quella assicurazione, il Battista comprende: è proprio lui il messia. Non c’è più motivo di scandalizzarsi perché la sapienza di Dio opera secondo i suoi segreti.

Nel vangelo di Matteo, in altre due occasioni si parla di scandalo a proposito di Gesù: in 13,57, allorché i compatrioti di Nazaret fanno resistenza all’insegnamento di Gesù e in 26,31, allorché i discepoli restano scandalizzati nella notte della cattura di Gesù. Sta di fatto che il Messia si manifesta diversamente da quanto ci si aspetta. Se vale per i profeti, è valso per i discepoli, come non varrà anche per noi? Lo scandalo del Messia povero e disarmato non finisce mai nella nostra vita. La rivelazione di Dio sorpassa ogni pensiero, sorprende le attese del cuore perché “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Il volto di Dio lo vedono coloro che non si scandalizzano della sua piccolezza quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno d’uomo aveva più l’aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli uomini, vedono cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di sembrarlo soltanto.     

Appena i discepoli di Giovanni si allontanano per portare la risposta al loro maestro, Gesù intesse l’elogio del Battista: “In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui”. Il paragone va preso in assoluto, vale a dire: se Giovanni è più grande dei profeti perché, a differenza di loro, non solo ha intravisto la venuta del messia parlando di lui ma l’ha incontrato personalmente, l’ha indicato presente nel mondo e quindi nessuno è più grande di lui, Gesù, che viene dopo, il piccolo dopo il grande, il discepolo dopo il maestro, solo lui mostra la realtà del regno di Dio venuto, solo lui è il compimento delle promesse, in lui si manifesta tutto lo splendore dell’amore di Dio per gli uomini. Il più piccolo nel regno è più grande del più grande tra gli uomini. L’invito è a seguire l’indicazione del Battista nel suo indicare l’agnello di Dio e Gesù si proclama come colui verso il quale guardare. La finale del brano comporterà appunto la rivelazione prodigiosa di Gesù che è ‘mite e umile di cuore’, motivo per cui i figli degli uomini trovano in lui il riposo. Si tratta di rivelazione perché l’aggettivo ‘mite’ (in greco πραυς) si trova nella terza beatitudine (Mt 5,8) e nel racconto dell’entrata di Gesù in Gerusalemme citando la profezia del ‘re mite, seduto su un’asina’ (Mt 21,5), dove la mitezza ha che fare con la passione di Gesù che esalta appunto lo splendore del suo amore per gli uomini. Con questo riferimento va compresa l’annotazione della ‘violenza’ con cui ci si impadronisce del regno, come lo è stato per il Battista e che il vangelo di Luca rende chiaramente con ‘ognuno si sforza [si fa violenza] di entrarvi’ (Lc 16,16). È la violenza del perdere se stesso per guadagnare la vita, del perdersi per ritrovarsi, del rinnegare se stessi per far fiorire la propria umanità e lasciarla sotto l’azione dello Spirito che la esalta.

La liturgia di oggi, consapevole della vicinanza del mistero del Natale che ci prepariamo a celebrare e della perenne portata di scandalo di quell’evento, indica la porta di accesso per il mistero di Dio in Gesù. Invita alla gioia, alla letizia, che suona scandalosa per la carne. Se l’uomo fosse davvero giusto, potrebbe gioire. Ma può l’uomo trovare nella sua giustizia la fonte della letizia? Se l’uomo potesse vantarsi di una scienza sicura e onnipotente potrebbe gioire. Ma può derivare all’uomo la letizia dalla potenza della scienza? Tutti ci rendiamo conto dell’illusione di una letizia che avesse tali radici.

Ora, proprio la possibilità di una letizia che non ha bisogno di trovare nella propria giustizia e nella propria scienza la radice della sua desiderabilità rivela al cuore dell’uomo la presenza finalmente del Dio con noi, del Dio che accondiscende alla nostra umanità perché risplenda della sua luce sanante. Gesù rivela proprio questo al Battista e quando ne tesse l’elogio non fa che mettere in risalto la grandezza della sua umanità, tutta protesa al mistero di Dio, ma che a paragone della ricchezza di verità che viene da Dio risulta essere assolutamente incompiuta. Ma l’ammissione di tale incompiutezza è espressione della vera grandezza del Battista, che riconosce nel Figlio dell’uomo la ‘grazia della verità’ che viene da Dio.

Quando Giacomo, nella sua lettera, invita alla pazienza (nel testo italiano traduciamo con costanza: ‘siate costanti’), invita a camminare e a lavorare con generosità e fiducia in vista della manifestazione del Salvatore al nostro cuore, finché essa diventi radice di letizia: il Signore è con noi! Solo allora non scambieremo più le nostre opere con la pretesa di giustizia o la nostra scienza con la rivendicazione di potere e sapremo rapportarci a tutti nella condivisione di quella letizia che fa conoscere a tutti l’amore salvatore di Dio. Sarà il senso della gioia del Natale scoperta come radice di speranza per il mondo che trova nella presenza del ‘Dio con noi’ la ragione profonda della sua storia.

don Vigilio Covi