II domenica del tempo ordinario
Il tempo ordinario è introdotto, in tutti e tre i cicli, dal vangelo di Giovanni: nel ciclo A, con la testimonianza del Battista; nel ciclo B, con la testimonianza dei primi apostoli; nel ciclo C, con l’evento della manifestazione di Gesù alle nozze di Cana. Il primo capitolo di Giovanni ha una struttura particolare nel senso che si premura di collocare gli eventi che racconta, a partire dal battesimo di Gesù, in un lasso di tempo di sei giorni, dopo i quali, il settimo giorno, si narra la venuta di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua.
Il brano di oggi è collocato il primo giorno dopo il battesimo di Gesù, che Giovanni non racconta. È il giorno della testimonianza del Battista: Gesù è l’Agnello di Dio; Gesù è il Figlio di Dio. Il Battista l’ha potuto riconoscere perché ha visto scendere e rimanere su di lui lo Spirito Santo. Colui che il Battista designa come l’Agnello di Dio, è il Servo del canto di Isaia che la liturgia proclama nella prima lettura. Secondo il testo del profeta Isaia, Dio parla al suo Servo la cui persona è disprezzata, che tutti guardano come scarto, schiavizzato dai potenti, esaltandolo nella sua obbedienza. Corrisponde alla voce celeste udita subito dopo che Gesù esce dal Giordano (e che il vangelo di Giovanni non riporta): “Questi è il Figlio mio, l’amato; in lui ho posto il mio compiacimento”. A tale proclamazione Gesù risponde con le parole del salmo 39: “Ecco io vengo. Nel rotolo del libro è scritto su di me di fare la tua volontà”. Parole, che Paolo commenterà in Ef 5,2: “Cristo ci ha amati e ha consegnato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio”.
Fin dall’inizio del racconto evangelico di Giovanni Gesù appare così nella luce pasquale. L’obbedienza del Servo, che gli deriva dalla totale intimità con il Padre nel suo amore per noi, si esprimerà con il suo consegnarsi per essere crocifisso, rivelando che tutta la sua vita, tutto il suo insegnamento, non sono stati altro che un’offerta in sacrificio a Dio per manifestare la grandezza dell’amore per noi che lo abitava.
Un particolare della testimonianza del Battista è assolutamente prezioso, se letto nell’ottica pasquale. Quando il Battista vede venire verso di lui Gesù all’indomani del suo battesimo esclama: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”. Gesù toglie nel senso che prende su di sé il peccato del mondo, ma non lo toglie dal mondo. Il mondo sarà sempre lì a testimoniare la sua contrarietà al volere di Dio, all’agire di Dio, nella storia e nel cuore degli uomini. Ma chi aderirà a Gesù, chi lo seguirà, chi si farà guidare dallo Spirito di cui lui è ripieno, non subirà danno dal male che imperversa in questo mondo. Come è stato per lui. Proprio quando il male si è come concentrato su di lui per distoglierlo dal suo segreto, proprio allora lui l’ha vinto con la sua assoluta fedeltà all’amore per noi, nella più totale intimità con il Padre suo che ama noi suoi figli. Di sé Gesù dirà: io ho vinto il mondo! Così anche i suoi discepoli, ma nella stessa via, negli stessi modi. Come leggevo ieri in una testimonianza di una donna lacerata dal dolore per le vessazioni e le ingiustizie subite: il male si vince davvero solo con il bene.
Non va dimenticato che in greco figlio e servo sono espressi da un unico termine e in aramaico servo e agnello sono espressi dallo stesso termine: talya. Quando l’evangelista Giovanni mette in bocca al Battista la sua testimonianza a Gesù con il denominarlo agnello, svela un doppio collegamento: si riferisce a Gesù come all’agnello pasquale immolato (Gv 19,36 descrive Gesù sulla croce in riferimento all’agnello al quale non viene spezzato alcun osso, secondo la prescrizione rituale dell’immolazione dell’agnello pasquale) e soprattutto rileva come Gesù toglie il peccato del mondo in riferimento a ciò che dice il profeta: “Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti …” (Is 53,4-5).
E questo avviene perché Gesù è servo del volere di salvezza del Padre nei nostri confronti. L’aver accettato di prendere un corpo e di vivere nella natura di servo sottolinea l’obbedienza a questa volontà di salvezza del Padre per noi. Se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo, presentandosi al battesimo come un peccatore e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che magnifica il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.
L’aspetto più straordinario poi è dato dal fatto che questa obbedienza fino all’immolazione in croce è vissuta in quanto Figlio, intimo del Padre. La sua intimità di sentire e di agire con il Padre è definita in rapporto all’amore per noi: tutti e due condividono lo stesso immenso amore per noi. E proprio la visione della discesa e permanenza su Gesù dello Spirito, dopo il battesimo al Giordano, rivela questa comunanza del Figlio con il Padre nell’opera della nostra salvezza. È lo Spirito che, colmando Gesù nella sua natura di servo, lo rende solidale con l’amore del Padre per noi da indurlo a fare sempre la volontà del Padre, cioè a cercare in ogni modo, senza alcuna riserva, con tutto lo splendore di amore che comporta, la nostra salvezza. In altre parole, Gesù tende a inglobare noi, per mezzo dello Spirito, nella stessa comunione di amore che lo lega al Padre e a noi. E sarà per questo che il segno dell’esperienza di salvezza per noi verrà individuato nell’amore a Dio e nella solidarietà piena con i nostri fratelli, in Cristo.
p. Elia Citterio