VII domenica del tempo ordinario

L’antifona di ingresso esprime molto bene l’atteggiamento con cui ascoltare l’annuncio della parola di Dio oggi: “Confido, Signore, nella tua misericordia. Gioisca il mio cuore nella tua salvezza, canti al Signore che mi ha beneficato” (cfr. Sal 12 (13),6). Lo stesso atteggiamento è ripreso dal salmo responsoriale, a commento del comando proclamato nella prima lettura: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2), con il ritornello: ‘Il Signore è buono e grande nell’amore’. Ma quando risuonano queste parole nella Scrittura? In una situazione così altamente drammatica da temere, da parte del popolo, di aver ormai perso tutto. Occorre riandare al contesto in cui il nome di Dio era stato proclamato per cogliere la portata della santità che definisce Dio nei confronti dei suoi figli e che abilita i suoi figli ad essere tali, come a Lui è gradito, per rivelare al mondo la grandezza del suo amore. Il popolo nel deserto, esasperato e impaziente, costruisce il vitello d’oro e rifiuta l’alleanza con il suo Dio che non sentiva più accanto. Quando Mosè discende dal monte e vede l’idolo eretto nell’accampamento si infuria, spezza le tavole della Legge e cade in profonda prostrazione: cosa farà ora il Signore? Starà ancora dalla parte del suo popolo? E di me che ne sarà? Mosè sta solidale con la sua gente, ricorda a Dio che questo è il suo popolo e per essere confermato chiede a Dio di vedere la sua gloria. E quando la gloria del Signore gli si manifesta, ode la proclamazione del nome: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso …” (Es 34,6). È la seconda volta che Dio rivela il suo nome e questa volta nel dramma più assoluto.

Così, la ripresa di questa proclamazione nelle parole del salmo responsoriale, a commento del comando di santità da parte di Dio ai suoi figli, assume questa particolare sfumatura. Se Dio è il misericordioso, sperimentato nella situazione di massima lontananza da lui e non respinge il pentimento dei suoi figli, ciò significa che tutte le virtù o l’agire buono degli uomini, se non introducono nella misericordia verso i propri fratelli, provengono dalla millantata giustizia umana, che non ha nulla a che fare con la santità di Dio. Gli effetti da osservare sono questi: quando l’agire buono trasborda in misericordia, si è fecondi, generosi di cuore, portatori di comunione; quando l’agire buono non si traduce in misericordia, ci si irrigidisce, si resta sterili e si rende la vita temibile. Non si dimentichi che il termine ebraico che esprime misericordia è collegato all’utero materno, non solo perché allude al legame viscerale tra madre e figlio, ma soprattutto al fatto che dall’utero materno scaturisce la vita. La misericordia favorisce sempre la vita, altrui e nostra.

 

Quando Gesù, a sigillo dei suoi inviti ad andare oltre la Legge, ma compiendone i misteri che alludono alla rivelazione di Dio nella sua persona, dirà: “Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, non farà che far emergere in tutto il suo splendore la luminosità della santità di Dio che si rivela nella sua misericordia senza limiti all’uomo. In effetti, non c’è scritto da nessuna parte nell’Antico Testamento di amare il prossimo e odiare il nemico. Quella espressione non appartiene alla rivelazione di Dio. Al cuore dell’uomo sembrava di poter interpretare il comandamento di Lv 19,18: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” nel senso di: “tu devi amare il tuo compagno, ma sei dispensato dall’amare il tuo nemico”. Gesù ricollega l’amore del prossimo all’imitazione di Dio, il cui nome, rivelato a Mosè sul Sinai, suona appunto: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”. La misericordia è tipica di Dio. Nell’Antico Testamento l’aggettivo ‘misericordioso’ è attribuito solo a Dio e mai all’uomo. Il che significa che ciò che fa splendere il cuore dell’uomo è l’amore pieno di misericordia: esprime la partecipazione alla santità di Dio e la natura della ‘perfezione’ richiesta all’uomo.

 

La giustizia basata sul principio della reciprocità alla quale gli uomini in genere si attengono non rivela ancora lo splendore di Dio. Gesù invita alla santità come comunione di vita con Dio, alla santità come partecipazione all’amore di Dio per i suoi figli. L’invito allude alla natura stessa del cuore dell’uomo, che ha una profonda nostalgia di Dio. Non tanto però di Dio in generale, ma dei comportamenti secondo Dio, comportamenti che strutturano i sogni del cuore degli uomini. Con l’invito a quell’eccedenza, Gesù non fa che svelare le possibilità del cuore dell’uomo una volta che si lasci toccare dalla rivelazione del regno dei cieli, che in lui si fa manifesto e partecipabile.

 

La ‘ricompensa’ di cui parla Matteo allude all’agire che esprime la gioia del Regno di Dio che ha lambito il cuore e che rende capace l’uomo di comportarsi non in termini di pura reciprocità ma in una logica di sovrabbondanza. È la capacità che il Messia dona ai suoi discepoli, quello che l’antica colletta domanda: “possiamo conoscere ciò che è conforme alla tua volontà e attuarlo nelle parole e nelle opere”. Da interpretare: possiamo aprire il nostro cuore alla promessa di vita che la parola del Signore cela e possiamo aprire gli eventi della nostra vita al Regno che viene.

 

Se la Legge aveva stabilito quella che siamo soliti chiamare la legge del taglione nel tentativo di arginare la sete di vendetta di fronte alle offese, Gesù ricorda di non opporsi nemmeno al malvagio, nel senso di rispondere al male con il bene perché il male non si propaghi. Gli esempi hanno un valore simbolico per sottolineare l’eccedenza nel volere il bene comunque (come racconta Gv 18,22-23, Gesù non ha offerto l’altra guancia a colui che l’aveva schiaffeggiato di fronte al Sommo Sacerdote, ma ha custodito comunque il bene). ‘Chi ti costringe ad accompagnarlo per un miglio’ allude al diritto dei funzionari del re di costringere chiunque all’aiuto richiesto, come sarà il caso del cireneo che porterà la croce di Gesù per un tratto di strada e Gesù invita ad agire non per dovere o sotto costrizione, ma in benevolenza. Tra l’altro, il verbo italiano angariare deriva dall’obbligo di una prestazione forzata imposta dalla pubblica autorità. La finale, che riassume il senso di tutti gli esempi riportati: “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, richiama proprio la santità di Dio che è amore per tutti i suoi figli, il cui bene precede l’agire degli uomini e quindi non ne dipende. L’eccedenza a cui allude Gesù ha proprio a che fare con questo ‘Bene’ di Dio che in Gesù si comunica all’uomo perché l’uomo non dipenda mai dal male, anche se lo subisce. La legge potrebbe essere definita come la fatica di arginare il male, mentre l’evangelo la possibilità di vincerlo. Alla fin fine solo la fiducia in quella possibilità ci rende capaci di non dar spazio al male.

padre Elia Citterio