V domenica di Quaresima
Gesù ha appena saputo della malattia mortale del suo amico Lazzaro, ma non si muove subito: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Il lettore del vangelo è subito avvertito di aguzzare lo sguardo. Non si tratterà di assistere semplicemente al miracolo di un richiamo alla vita di un uomo morto, ma di cogliere quello che da quel miracolo scaturisce, cioè la passione di Gesù nella quale lui sarà glorificato. Quando Marta, davanti al sepolcro del fratello, ricorda a Gesù il fetore dei morti, si sente dire: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. Dal punto di vista degli affetti umani, sembra che la domanda di fondo che serpeggia per tutto il brano non sia: perché la morte?, ma: perché Dio non impedisce la morte? Gli amici della famiglia di Lazzaro così pensano. Per noi invece la domanda che rimbalza può essere formulata così: sarà mai possibile vedere la gloria di Dio nella nostra vita?
È la stessa domanda della fede di Marta, che inaspettatamente risponde a Gesù, non di credere a quello che gli ha detto, ma: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. Non dice: io credo che tu hai il potere di far risorgere i morti, ma piuttosto: io credo che tu sei il Figlio di Dio. Afferma la verità del suo incontro con lui, del suo amore; ha piena fiducia in lui. Per questo potrà vedere la gloria di Dio. E sarà per questo che potrà seguire il suo Gesù, con sua sorella Maria, fino alla fine, fino a che la sua glorificazione appaia al mondo. Il vedere Gesù che fa ritornare in vita Lazzaro non induce ad una esaltazione della sua persona, ma fa presagire come e perché Gesù abbia tale potere e quindi mette in risalto la sua disponibilità a morire per manifestare in tutta la sua potenza l’amore del Padre, da cui scaturisce la sua glorificazione e la vita per noi.
La fede apre ad una vita che consiste nel vedere la gloria di Dio. Cosa significa per noi? È sempre questo il punto misterioso del discorso e dell’agire di Gesù. Quando il seguito del vangelo confermerà che effettivamente Gesù viene condannato alla morte di croce, l’evangelista parla proprio di glorificazione. E non allude semplicemente alla glorificazione che seguirà la morte in croce quando risorgerà, ma al mistero di quella gloria che consiste nella rivelazione di quanto Dio ami gli uomini. È nell’amore di Dio che arriva agli uomini che va cercato il senso della gloria di Gesù. Gloria, che si fa rivelazione e dono di una vita ormai definitivamente segnata da quell’amore, di cui lo Spirito ci fa partecipi. Di questo è segno il miracolo della risurrezione di Lazzaro. Un passo della lettera agli Ebrei illustra bene l’esperienza del cuore dell’uomo che ha fede: “trassero vigore dalla loro debolezza” (Eb 11,34). Corrisponde alla frase di Gesù: “questa malattia non è per la morte”. Ciò che costituisce la pena o l’afflizione della vita è solo il contesto in cui si gioca la rivelazione dell’amore di Dio che dà vita.
La colletta fa pregare: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Quella carità è il frutto della sua glorificazione che ci viene elargito dallo Spirito Santo. Il combattimento spirituale, la lotta contro il male, l’osservanza dei comandamenti altro non è che una partecipazione alla potenza della risurrezione, allorché la vita viene vissuta nella carità del Cristo che niente e nessuno può mortificare. È il principio della vita eterna, quello di una vita che non abbia altra consistenza se non come carità. L’incontro con Gesù apre a questa dimensione. Se lui è ‘datore di vita’ lo è perché, facendo vivere nella sua carità, impedisce alla morte di tenere prigioniero il nostro cuore.
Il nostro gridare, nel salmo responsoriale, a commento del passo di Ezechiele che riporta la promessa di Dio di aprire le nostre tombe in riferimento alla liberazione del popolo da Babilonia: “Dal profondo [secondo la versione greca: Dalle profondità] a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce”, deriva dalla coscienza della nostra mortalità, non semplicemente come termine della vita biologica, ma come abisso della mortificazione della vita che stenta ad accedere alla carità di Dio. Proprio quella ‘mortificazione della vita’ il Signore vince. Nel salmo la preghiera dell’uomo ruota attorno a due verbi: attendere e sperare. Sono i verbi della fede. Si resta pazienti e fiduciosi nell’attesa di una parola di salvezza perché si spera nella misericordia di Dio che ci soccorre.
È interessante osservare che l’episodio della risurrezione di Lazzaro si chiude non con il riconoscimento o l’incontro affettuoso di Lazzaro con Gesù, ma con il comando: “Scioglietelo e lasciatelo andare”. Corrisponde all’invito di Gesù, dopo i miracoli di guarigione: ‘va’, la tua fede ti ha salvato’. Venire a Gesù (questo potrebbe anche voler significare il grido di Gesù: Lazzaro, vieni fuori!) comporta vivere della sua vita, della vita che lui può dare e lo spazio di espressione di questa vita è ormai dato dalla fraternità che si vive nel mondo. A questa Gesù rimanda.
Il punto di verità del racconto, che solo un lettore attento può cogliere, è il fatto che con il miracolo della risurrezione di Lazzaro Gesù scatena la sua ora. La finale del capitolo lo sottolinea espressamente: “Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”. Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,49-52). Lo scopo e la ragione del suo agire, sottolineato dal potere di fare miracoli, di cui questo della risurrezione di Lazzaro è il settimo nel racconto di Giovanni, si manifesteranno chiaramente con la sua stessa morte e risurrezione.
Se Gesù non ha voluto risparmiare la prova ai suoi amici e viene a condividerla, tanto da restarne intimamente e profondamente scosso, la ragione è da ricercare nel fatto che così facendo si espone alla sua prova, anzi la provoca con l’arresto e la morte imminenti. Ma la sua non è una semplice condivisione della sofferenza umana. Il suo rendere grazie l’attraversa, la porta fino in fondo. È però più forte della morte e se esulta, non è per aver impedito il suo corso, ma per aver trionfato su di essa dopo averle lasciato esprimere tutto il suo potere. Ciò che Gesù ci ottiene non è la vita dopo la morte, ma la vita nella morte. È la rivelazione dell’amore come vita eterna, immortificabile perché piena.
padre Elia Citterio