XXI domenica del tempo ordinario

Risuona potente l’affermazione di Paolo ai Romani: “ O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm 11,33). Non però perché sono incomprensibili o oscuri, ma perché rispondono alla grandezza di un amore così impensabile, che il cuore dell’uomo stenta a riconoscere. Nel brano di oggi risuona l’eco della lode di Gesù al Padre: “ Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Mt 11,25-26). In primo piano non sta l’opera dell’uomo, ma l’azione di Dio che si manifesta nel suo amore per l’uomo. Gesù testimonia proprio questa azione della manifestazione di Dio agli uomini. Solo coloro che non alzano barriere di pretese o rivendicazioni, solo i piccoli, coloro che sono disposti ad accogliere con fiducia e stupore, solo questi possono partecipare alla gioia di quella manifestazione. Di questa beatitudine Pietro partecipa e, con lui, tutta la chiesa.

Nel colloquio a Cesarea con i discepoli, quando chiede loro che cosa pensa la gente di lui e che cosa loro pensino di lui, Gesù usa per l’ultima volta il titolo di ‘figlio dell’uomo’. Pubblicamente non lo userà più, fino a riprenderlo davanti al Sommo Sacerdote in occasione del suo processo davanti al Sinedrio (cfr. Mt 26,64), a significare il contenuto messianico di quel titolo. Ma nessuno è ancora pronto a cogliere il contenuto di rivelazione di quel titolo e per evitare malintesi Gesù non lo usa più. In effetti, dopo la confessione di lui come il Messia, Gesù ingiunge ai discepoli di non parlare, di non dire. È confessato come Messia, ma non è ancora il momento di dichiararlo pubblicamente.

Cesarea di Filippo è la città costruita da Erode Filippo presso le sorgenti del Giordano, in una zona rocciosa, alle pendici del monte Hermon, nell’estremo nord di Israele. Prima di scendere a Gerusalemme, Gesù, che aveva raccolto attorno a sé i suoi apostoli, li interroga. Per la gente io chi sono? Nella loro risposta i discepoli alludono alla grande attesa che abita i cuori: verrà il messia e ci libererà. Non era importante definire la persona del messia, era sufficiente che fosse definito il ruolo del messia. La gente si ferma qui. Sono riprese le descrizioni scritturistiche del messia, cominciando dall’affermazione di Erode: costui è il Battista redivivo, interpretato come l’Elia che deve venire. E Matteo aggiunge anche il nome del profeta Geremia per sottolineare il destino di sofferenza del messia, come poi Gesù dirà poco dopo. Gesù però insiste con i discepoli: ” Ma voi, chi dite che io sia?”. La risposta di Pietro, portavoce dei suoi compagni, fa un passo avanti rispetto alla gente; cerca di cogliere la persona del messia senza fermarsi semplicemente al ruolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Nella sua professione di fede c’è la confessione di Gesù come l’Eletto, l’Unico, il Figlio Unico, l’Unigenito, nella sua unicità di relazione con Dio; ma anche nella sua unicità di relazione con gli uomini, per i quali è l’Inviato, il Figlio prediletto che rivela l’amore del Padre, l’Unico che può rivelare il vero volto di Dio. Tutto questo esprime la sua confessione di fede ed è per questo che Gesù lo proclama beato in quanto quella percezione non può derivare dalla carne e dal sangue, dalla sua esperienza umana, ma deriva dall’iniziativa stessa di Dio che al suo cuore si è mostrato.

Allora Gesù fa una promessa a Pietro: “ E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”. Pietro è la traduzione greca del nome aramaico Kepha (roccia). Nell’ambiente di allora non veniva usato come nome proprio di persona. L’attribuzione a Simone, figlio di Giovanni, del nome ‘Kepha’, ‘Roccia’, Pietro (nel racconto di Matteo, fin dall’inizio Simone è chiamato Pietro; perciò non si deve vedere in questo evento l’attribuzione del nome Pietro a Simone, bensì la spiegazione del fatto che Gesù l’abbia fin dall’inizio chiamato così) indica il fondamento sul quale si regge la fede: la persona del Figlio del Dio vivente, sul quale l’apostolo e tutti i discepoli con lui possono giocare la loro vita, perché Dio non viene meno alla sua alleanza con gli uomini e perché Gesù costituisce il sigillo ultimativo e definitivo della volontà di salvezza di Dio per l’uomo. Dio in effetti è la Roccia, colui che non viene mai meno, che non manca di adempiere le sue promesse, che è sufficientemente potente per adempierle; se l’uomo lo accoglie, lo riconosce, ne avverte il Bene e gli fa spazio, partecipa anche lui di quella ‘saldezza di fondamento’ e può gustarne la dolcezza incorruttibile. Si può ravvisare nella promessa di Gesù l’eco di Is 28,14-18, dove il profeta annuncia la messa in opera della pietra angolare per la ricostruzione di Gerusalemme e del Tempio, rovesciando l’alleanza con gli inferi dei capi di Israele. Per alleanza con gli inferi o con la morte si intendeva il patto scellerato dei capi di Israele con l’Egitto in funzione antiassira, cosa che ha solo accelerato il disastro. Ma Dio non viene meno alle sue promesse e prepara la nuova pietra angolare, che poi è Gesù stesso, confessato appunto da Pietro come Messia.

Nel giudaismo il legare e sciogliere alludeva al proibire e permettere secondo la Legge. Qui invece assume il significato dell’escludere e dell’ammettere, nel senso che non saranno più gli scribi (a loro sono tolte le chiavi, cfr. Mt 23,13) a far entrare nella comunità dell’alleanza, ma saranno i discepoli che allargheranno alle genti la possibilità di entrata. Allude anche al potere della confessione di fede nel Signore Gesù che apre al perdono dei peccati e dà l’accesso al regno di Dio. Con la conseguenza che la disposizione di legare/sciogliere riguarda il movimento profondo del cuore davanti al prossimo. Come a dire: se sciolgo il fratello dal suo peccato verso di me, anche il mio peccato sarà sciolto davanti a Dio. Se lego il peccato del mio prossimo, anche il mio resterà legato davanti a Dio. È il mistero della dinamica del perdono, forse la dimensione evangelica più marcata nell’insegnamento di Gesù.

È però anche il mistero della ‘conversione’ che ci ottiene la riconciliazione con Dio, nel Signore Gesù, garantita dalla Chiesa. Come se la Chiesa ci ripetesse sempre: il regno dei cieli è davanti a voi; Colui che Dio ha designato per mostrarvelo, per aprirvelo, per introdurvici, è qui davanti a voi. Lo potete toccare, è finalmente alla vostra portata. Niente e nessuno può rapirci al Signore: questo significa che le porte degli inferi non prevarranno contro la chiesa. Se siamo suoi, di lui che è il più forte, allora nessuno può rapirci; se prendiamo la vita da lui, che è il Vivente, Colui sul quale la morte non ha più potere, allora la vita che ci attraversa non cederà davanti a nulla perché non è più soggetta alla morte. Quella promessa è da raccordare con l’altra, alla fine del vangelo: “ Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, parole con cui si chiude il vangelo di Matteo (Mt 28,20). E nelle parole di Gesù è adombrata la promessa che non mancheranno mai uomini e donne che faranno risplendere in mezzo a noi quella Presenza.

don Vigilio Covi