XXIV domenica del tempo ordinario
Per cogliere la portata di rivelazione dell’insegnamento di Gesù sul comandamento del perdono vicendevole possiamo farci la domanda: perché Gesù insiste così tanto sul perdono vicendevole? Quando insegna la preghiera del Padre nostro, l’unica invocazione che riprende nella sua spiegazione è quella sul rimettere i debiti. Perché?
Il capitolo 18 del vangelo di Matteo, dove il comandamento del perdono vicendevole è illustrato con tanta enfasi, inizia con la domanda: chi è più grande nel regno dei cieli? Risposta: chi perdona sempre! La domanda potrebbe essere espressa anche in questo modo: cosa è più gradito a Dio? Cosa attira maggiormente la grazia di Dio? La risposta è sempre la stessa: il perdonarsi vicendevole. Due sono i perni sui quali il vangelo fonda la grazia del perdono. Per rispondere alla domanda su chi sia più grande nel regno dei cieli, Gesù prende un bambino e dice: “Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18,4). Il testo greco però è assai più puntuale. Non dice ‘chi si farà piccolo’, ma ‘chi si umilia’ come questo bambino. In pratica dice: chi rinuncia a ogni suo diritto pur di onorare il fratello, questi è il più grande nel regno dei cieli. Chi rinuncia alla propria difesa, può onorare sempre il fratello e testimoniare la grandezza dell’amore di Dio per i suoi figli. Il più piccolo, in questa ottica, è proprio Gesù che svuotò se stesso per farsi servo e mostrare a tutti lo splendore dell’amore misericordioso del Padre. Per questo è il più grande. Chi si fa come lui partecipa della sua grandezza.
Quando, più avanti, Pietro chiede quante volte debba perdonare al fratello, Gesù risponde nella stessa logica. Pietro, oltrepassando le tre volte di perdonare al fratello che la legge rabbinica ingiungeva al credente, avanza il numero di sette volte, già abbondantemente oltre le norme consuete. Ma non c’è alcun confine o limite da rispettare perché Dio non rispetta nessun limite per mostrare il suo amore. E la risposta di Gesù mira a rovesciare completamente la logica della vendetta che si era impadronita dei figli degli uomini con Caino, che uccide suo fratello ma sarà vendicato sette volte se qualcuno lo ucciderà e con Lamech che, uccidendo per una scalfittura, sarà vendicato settantasette volte (Gn 4,24). Con Gesù viene superato ogni limite restrittivo. Non c’è condizione al perdono, perché il perdono ha a che vedere con lo svelamento del segreto di Dio. Dire settanta volte sette significa dire sempre.
La ragione viene illustrata con la parabola del re che vuole regolare i conti con i suoi servi. La parabola è tipica di Matteo e quindi si riferisce al contesto rivelativo del comandamento del perdono vicendevole. L’ammontare del debito del primo servo è astronomico. Il fatto che debba al re diecimila talenti significa che è così alto da essere insolubile. Basta pensare che il prodotto annuale delle imposte di Erode in Galilea ammontava a duecento talenti. E se facciamo il confronto tra i diecimila talenti (un talento equivaleva a diecimila denari) e i cento denari del secondo servo, la proporzione è di cento a cento milioni. Le cifre però sono iperboliche proprio per sottolineare tutta la compassione del re che, dietro la supplica del primo servo, non dilaziona il pagamento, ma glielo condona, glielo cancella. Soltanto che l’esperienza del condono non si tramuta, nel cuore di quel servo, in gratitudine ma solo nella soddisfazione di scampato pericolo. Così, quando incontra il suo compagno, che gli deve una certa somma (corrisponderebbe a tre mesi di paga di un salariato), non vuole sentire ragioni e lo fa mettere in prigione fino alla restituzione del debito.
È chiaro che il lettore si sente interpellato a giudicare il primo servo: ma che cattivo! Poteva ben dilazionare, se non proprio condonare il debito. Nemmeno questo! Così è indotto a sottoscrivere la condanna del re che, sdegnato, ritira il suo condono e fa punire il servo dal cuore malvagio. La parabola è chiara. Ma non ci si accorge che la condanna del lettore è contro se stesso perché ognuno di noi è impersonato nel primo servo. Nessuno è innocente davanti a Dio. Il debito contratto con lui è insolvibile comunque. L’unica possibilità di salvezza è che il re sia misericordioso con noi nella sua generosità e benevolenza. E il re lo è. Ma è come se questa sua benevolenza debba far scaturire in noi benevolenza. Se non scaturisce, vuol dire che noi l’abbiamo semplicemente fatta franca o, meglio, crediamo di farla franca. Appena però ci imbattiamo a nostra volta in un fratello che ci deve qualcosa, allora emerge la verità del cuore: se ha vissuto un’esperienza di benevolenza o di astuzia, se ha riconosciuto i sentimenti del re o se solo se ne è servito per i suoi comodi.
Quando si dice che Dio condiziona il suo perdono al nostro, non si vuol dire che Dio viene dietro a noi. Al contrario, noi perdoneremo se davvero facciamo esperienza del suo perdono. Noi non potremo non perdonare se abbiamo coscienza del fatto che siamo stati perdonati. Il condividere il perdono con i fratelli segnala la verità della conoscenza della benevolenza di Dio nei nostri confronti. Così si trova la grandezza dell’amore nella rinuncia ad ogni rivendicazione da parte nostra. Come sottolinea la preghiera sulle offerte: “Accogli con bontà, o Signore, i doni e le preghiere del tuo popolo e ciò che ognuno offre in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”. L’offerta a Dio sarà accolta a patto che si risolva in splendore di fraternità, di cui il perdono vicendevole è il segno più eloquente. E allora varrà per il nostro cuore la bellissima preghiera dopo la comunione: “La potenza di questo sacramento [perdono di Dio], o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo Santo Spirito”.
padre Elia Citterio