XIX domenica del tempo ordinario
Il brano evangelico di oggi illustra il mistero della grandezza divina del servizio, rivelazione tipicamente evangelica: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. Ecco l’immagine di fondo che l’uomo non avrebbe potuto inventarsi e che riassume invece il senso della persona e dell’agire di Gesù: Dio si mette a servizio e in servizio degli uomini!
L’esortazione alla vigilanza, con le parabole che la illustrano, dice assai più di quello che saremmo portati a credere. I beni sono precari, e anche la vita è precaria. Stare vigili significa allora non perdere la coscienza di quella precarietà? Oppure, ancora, significa aspettare con timore l’arrivo del padrone, che comunque verrà e che dovrà ricompensare o castigare i suoi servi a seconda di come si sono comportati? Non c’è nulla di evangelico in questo tipo di vigilanza.
La vigilanza evangelica è in rapporto ad altro. Se al Padre è piaciuto darci il suo regno nel Figlio che lo rivela, allora tutto va giudicato in funzione di quella verità. E tanto più quella verità parla al cuore, tanto più il cuore vivrà di quella verità. Come a dire: tanto più il cuore vedrà la bellezza del Figlio di Dio, tanto più la vedrà nei figli degli uomini per cui si metterà a servirli. Le parabole alludono più direttamente al mistero della rivelazione del Figlio di Dio che si compie nella storia, alludono al Signore che viene a preparare tavola ai suoi, a condividere i suoi segreti quanto all’amore di Dio per l’uomo, motivo di beatitudine per il cuore dell’uomo.
Si tratta di un’esperienza di fede che equivale a un vivere nell’orizzonte di una promessa che ha toccato il cuore. In primo luogo non sta la fatica del vegliare, ma la percezione della fedeltà di Dio alla sua alleanza. Non per nulla la liturgia comincia con l’antifona: “Sii fedele, Signore alla tua alleanza, non dimenticare mai la vita dei tuoi poveri. Sorgi, Signore, difendi la tua causa, non dimenticare le suppliche di coloro che t’invocano”. Si tratta di un vegliare in funzione della percezione del regno di Dio arrivato a noi, in funzione della sua promessa di prossimità all’uomo che si è compiuta e che continuamente si va compiendo. La forza dell’esortazione del vegliare sta tutta nel riportare il cuore a sentire l’alleanza di Dio, a vederla realizzata nel Signore Gesù che diventa il tesoro del cuore perché in lui si concentrano le promesse di Dio e i nostri aneliti. E prima ancora che tradursi in fatica di veglia perché il nostro cuore non si allontani dalla verità percepita, diventa ardore di veglia perché il Signore non dimentichi, perché non abbia timore delle nostre miserie, perché non ci abbandoni, perché si costringa alla fedeltà a quell’amore che ha così fortemente voluto per noi.
Il senso della parabola dell’attesa del padrone quando torna dalle nozze va cercato in quel tipo di vigilanza evangelica. L’immagine non ha nulla di usuale perché non esiste sulla terra padrone che si metta a servire coloro che sono al suo servizio. Non è possibile non pensare al gesto di Gesù di lavare i piedi ai discepoli nell’ultima cena, come non è possibile non riferirsi al versetto di Giovanni: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Quel gesto, quella volontà del Signore nei nostri confronti, è ben sottolineata dal versetto iniziale del brano di oggi: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di dare a voi il Regno”. E corrisponde, nella ricostruzione della vicenda del popolo di Israele che esce dall’Egitto, secondo il libro della Sapienza, all’annotazione: “Quella notte fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà”.
La fede, che diventa ‘una colonna di fuoco, come guida di un viaggio sconosciuto’, nel viaggio cioè della nostra vita, sta tutta nella percezione di quel “al Padre vostro è piaciuto”. In quella volontà assoluta di benevolenza per l’uomo, volontà manifestata in Gesù, sta il segreto della vigilanza evangelica, come anche della fatica apostolica. Come potremo liberarci dagli affanni e dalle preoccupazioni per i beni di cui abbiamo bisogno per vivere, come potremo vivere in sicurezza una vita assolutamente precaria, come non doverci servire dei fratelli per colmare il vuoto della precarietà che ci attanaglia, se non abbiamo mai percepito quella volontà di benevolenza nei nostri confronti? L’insistenza delle Scritture e della Tradizione quanto al non dimenticate, state attenti, vegliate, trova qui la sua ragion d’essere.
In questa ottica anche un altro particolare del brano evangelico di oggi assume tutta la sua rilevanza. Sembra che le parabole sulla vigilanza si riferiscano a un tempo finale, allorquando il padrone arriverà e non ci saranno più scuse che tengano. In realtà non si tratta di un tempo (il tempo eterno dopo il tempo storico) ma di una dimensione (il tempo eterno che attraversa il tempo storico). Come a dire: il padrone che arriva è l’immagine della rivelazione che si compie quando la vita quotidiana si apre al mistero del regno dei cieli. Non si tratta di un vivere oggi in un certo modo quaggiù per meritarsi di andare domani lassù. Si tratta piuttosto di un’imminenza del Regno che si può rivelare in ogni punto della nostra vita. A questo tende il servizio del padrone riguardo ai suoi servi: lui si rivela al cuore nella sua volontà assoluta di benevolenza per noi, visione che cambia radicalmente l’orizzonte della nostra vita.
A ricordarci che non si tratta, però, di una beatitudine beata, ma angosciosa, lavorata, paziente, sta l’esempio di Abramo riportato nella seconda lettura. È vero che, se Abramo ha potuto vedere solo di lontano i beni promessi, noi possiamo dire di averli conseguiti, avendoli visti realizzati in Gesù. Ma per noi, come per lui, se la promessa è certa, l’attuazione è precaria. Professare che in Gesù le promesse si compiono non significa ancora che si compiono in verità in noi. Non per nulla le parabole sulla vigilanza parlano della responsabilità dell’agire dei discepoli, con l’insidia dell’illusione sempre alle porte, con l’insidia della durezza di cuore rispetto all’attesa del padrone e al trattamento dei fratelli. L’accento però, nell’esperienza evangelica, non è più posto sulla funzionalità dell’agire (faccio bene per avere una ricompensa) ma sulla qualità della vigilanza (sono così desideroso del mio padrone che mi preoccupo di tutti i suoi servi). È l’attesa di Qualcuno, di Qualcuno che si sveli al mio cuore che informa ormai la qualità dell’agire.
padre Elia Citterio