XXVI domenica del tempo ordinario
La parabola di oggi illustra in negativo quello che la parabola dell’amministratore disonesto illustrava in positivo: “Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’ essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne”. La costatazione di fondo può essere riassunta così: il povero ha bisogno del ricco in vita, il ricco ha bisogno del povero in morte. Guai a non accorgersi di questo bisogno!
Possiamo leggere la parabola in tre tempi:
1) la storia è narrata in chiave speculare a suggerire il ribaltamento delle situazioni, tipico del messaggio biblico. La sottolineatura che ne consegue è la seguente: Dio non giudica come giudica l’uomo! Qui il ricco gode e il povero soffre, lassù il povero godrà e il ricco soffrirà. Come qui il povero chiede pietà al ricco ma non la trova, lassù il ricco chiederà pietà ma non la troverà. L’abisso che si era stabilito in vita tra il ricco e il povero, ricomparirà, ormai definitivo, tra il povero e il ricco. Il ribaltamento delle situazioni allude al giudizio di Dio che toglierà ogni illusione. Si tratta dell’illusione della ricchezza come garanzia della vita. La parabola suggerisce uno dei criteri di discernimento più sicuri per agire bene: porsi dal punto di vista della fine, porsi dal punto di vista dell’eterno.
In gioco non è affatto la condanna delle ricchezze e l’esaltazione della povertà. In gioco è la solidarietà nella vita. S. Agostino dice del ricco: ‘possegga pure, ma non si lasci possedere’. L’uomo ricco, che gode di beni materiali, si arricchirà presso Dio se li condividerà con il povero, in modo che il rendimento di grazie sia solidale. È come dire che la vita si gioca nell’amore e l’amore risulterà dalla dignità di tutti, custodita e favorita con ogni mezzo. Non viene chiesto al ricco di disfarsi della sua ‘ricchezza disonesta’, ma di usarla per provvedere al povero.
La parabola non è raccontata per dare consolazione al povero, per invitarlo alla pazienza; è raccontata per svegliare il ricco. La forza del racconto poi non sta nel deterrente di paura (i toni sono pacati e familiari) ma nello svelamento del segreto della vita. In gioco è la fede nel Salvatore che ‘convince’ alla fraternità nella comunione col proprio Dio.
2) I particolari della parabola illustrano bene la posta in gioco nella vita e il modo di giocarla bene. Ci sono come dei punti nevralgici con cui il narratore chiede di misurarsi per averne intelligenza.
Anzitutto i nomi dei personaggi. Il ricco non ha nome, mentre il povero è chiamato Lazzaro, che significa ‘Dio aiuta’. Senza Dio l’uomo si confonde con ciò di cui si serve e che finisce per servire. Voler avere la vita dalla ricchezza comporta dimenticare Dio e misconoscere il fratello.
Il ricco non è condannato per la sua cattiveria e nemmeno per il suo disprezzo del povero; è condannato perché non vede, non si premura di vedere, nemmeno s’accorge del povero tanto vive nella sua illusione. Solo negli inferi è detto che il ricco ‘alzò gli occhi e vide’. Non aveva mai alzato gli occhi durante la sua vita. Ma oramai, non essendo più tempo di agire, il suo vedere lo condanna. Questo particolare esprime il movimento del cuore che prelude al riconoscimento della verità della vita. Quello che viene indicato avvenire là nell’inferno, nel giudizio della parabola, è proprio quello che ci si esorta ad assumere adesso nella nostra vita. A tale riguardo, la prima lettura del profeta Amos celebra l’intervento di Dio nella storia come il sopraggiungere del disincanto, come la cessazione dell’illusione. Quella classe nobile che sperperava allegramente i beni del popolo senza curarsi del bene del popolo verrà spazzata via: la potenza assira conquisterà Israele e tutti saranno ridotti in schiavitù.
Lazzaro, nel paradiso, è descritto con l’immagine del banchetto messianico, nel posto d’onore, a fianco di Abramo. La scena corrisponde al banchetto dell’ultima Cena con Gesù e Giovanni al suo fianco che può reclinarsi sul suo petto. È la traduzione in immagine dell’affermazione: gli ultimi sono i primi. Qui si vede cosa significa l’espressione più volta ripetuta nei salmi: Dio conosce l’umile.
3) La conclusione della parabola lascia intravedere allusioni misteriose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. Quando Lazzaro, fratello di Marta e Maria, è stato risuscitato da Gesù, il miracolo non convincerà coloro che erano ostili verso Gesù. Gesù stesso risusciterà, ma di per sé nemmeno questo convincerà. Occorre prima dar credito alla parola di Dio, alla promessa di Dio celata nella sua parola. Declinerei in due tempi la portata di questa affermazione:
a) Dio non si può vedere direttamente. A Lui ci si può aprire accogliendo la sua parola e avendo cura del povero. Non basta però condividere i propri beni; occorre anche aver premura del povero, perché è quella premura che rende preziosa e amabile la condivisione, che risulta così essere segno della fede in Dio, che vuole felici i suoi figli.
b) non si può cogliere la portata del mistero di Gesù, compimento della promessa di Dio per l’umanità, se non riferendosi a tutte le parole della Scrittura, perché tutte di Lui parlano. Da interpretare nel senso dell’espressione di Paolo a Timoteo: “ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo…”. Ogni parola va custodita e accolta, integra e viva, perché praticandola ci sveli il volto del Signore che si è fatto nostro prossimo, vicino a noi e raggiungibile nel nostro vicino. La condizione? La trovo ben espressa in una colletta della messa nel rito ambrosiano: “… conferma in noi la grazia della tua libertà”. Vedere nei comandamenti la possibilità di sperimentare l’amore di Dio per noi e la fraternità con gli uomini comporta il dono di una grande libertà, quella che ci deriva dal Signore Gesù Cristo che, rivelandoci il suo Volto dà anche a noi un volto in cui specchiarsi, riconoscersi e ritrovarsi. È la libertà che il cuore respira quando i suoi pensieri si accostano ai pensieri di Dio, quando i suoi pensieri si intessono con i pensieri di Dio e cade l’illusione di potenza, di sufficienza, di dominio per aprirci orizzonti nuovi e lucidità di visione e calore di rapporti.
In tal senso è particolarmente illuminante il salmo 146, l’inizio dell’Hallel, che gli ebrei recitano nella preghiera quotidiana del mattino. Insieme i salmi 146-150 comportano dieci alleluia, che richiamano le dieci parole della creazione e le dieci parole dei comandamenti. Il tutto nel segno della lode per la verità rivelata: Dio regna per sempre. Il salmo 146 elenca dieci azioni in cui consiste la fedeltà del Signore al suo amore ricco di misericordia, modello per il credente per il suo amore al prossimo.
padre Elia Citterio